domenica 31 gennaio 2016

Agevolazione prima casa 2016: cosa cambia

Agevolazione prima casa 2016: cosa cambia

Viene esteso il bonus sulla prima abitazione: IVA e imposta di registro più convenienti per una fetta più ampia di contribuenti.

Una delle novità più interessanti della manovra di fine anno è contenuta nel pacchetto fiscale: la famosa agevolazione sull’acquisto della prima casa (anche detta “bonus prima casa”), cui fa ricorso una larga fetta di contribuenti, ha esteso le proprie maglie andando a ricomprendere una serie di ulteriori ipotesi prima scartate dalla legge. Dal 1° gennaio 2016, dunque, la situazione è la seguente:

Dal 1° gennaio 2016 si può ottenere l’agevolazione prima casa – sempre che ricorrano anche tutti gli altri presupposti – anche la persona che al momento dell’acquisto sia già titolare:

– anche per quote o in comunione legale, di altra abitazione acquistata con l’agevolazione (in proprietà, usufrutto, uso, ecc.);

– esclusivo o in comunione con il coniuge, di altra abitazione nel Comune in cui è situato l’immobile da acquistare.

In questi casi l’agevolazione si applica a condizione che il beneficiario ceda il vecchio immobile entro un anno dalla data del nuovo acquisto.

Ricordiamo che l’agevolazione prima casa consiste nella riduzione dell’aliquota IVA al 4% o dell’imposta di registro al 2% a seconda che l’immobile venga acquistato da costruttore o da privato.

La coppia di coniugi

Il contribuente mantiene le agevolazioni fiscali sulla prima casa anche quando non trasferisce la residenza entro diciotto mesi quando dimostra l’acquisto in comunione del bene e la coabitazione con la moglie. Il principio è stato chiarito dalla Cassazione con una sentenza questa mattina [1]. Nella sentenza in commento, la Corte ha precisato due principi:

– il trasferimento della residenza anagrafica rappresenta un obbligo del contribuente a cui egli può sottrarsi solo se ci sono ostacoli nell’adempimento, che non devono essere a lui imputabili o comunque tali da risultare inevitabili e imprevedibili e quindi la causa di forza maggiore sopravvenuta dopo il rogito notarile non fa decadere l’agevolazione;

– in caso di acquisto in comunione i coniugi, pur non essendo obbligati ad una comune residenza anagrafica, devono rispettare tale requisito con riferimento alla famiglia se vogliono mantenere i benefici prima casa, non potendosi affermare il diritto pro quota all’agevolazione in favore del solo coniuge residente.

Il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l’immobile acquistato venga adibito a residenza, non rileva la diversa residenza di chi ha acquistato in regime di comunione; in particolare occorre osservare che i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione; quindi una interpretazione della legge tributaria conforme ai principi del diritto di famiglia induce a considerare che la coabitazione con il coniuge è elemento sufficiente a soddisfare il requisito della residenza a fini tributari, in quanto ciò che conta non è tanto la residenza dei singoli coniugi quanto quella della famiglia. Il codice civile – secondo il quale i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa – da una parte riconosce ai coniugi la possibilità di avere esigenze diverse ai fini della residenza individuale, dall’altra parte tende a privilegiare le esigenze della famiglia, quale oggetto autonomo rispetto ai coniugi.

Acquisto tramite leasing

Nel caso, invece, in cui l’acquisto avvenga tramite la sottoscrizione di contratto di leasing, bisogna distinguere:

– nella prima fase dell’operazione, quella cioè della cessione dell’abitazione in favore della banca o società finanziaria per essere poi concessa in leasing al privato che ha i requisiti per l’agevolazione, si applicano l’imposta di registro dell’1,5% e le ipocatastali fisse;

– al termine invece del contratto di leasing, il successivo ed eventuale riscatto è soggetto a imposte di registro e ipocatastali fisse.

 

In pratica

La legge di Stabilità per il 2016 ha ampliato i casi in cui si può beneficiare dell’agevolazione per l’acquisto della “prima casa”: in sintesi, dell’agevolazione si può avvalere anche chi sia già proprietario di una abitazione acquistata con l’agevolazione “prima casa” a condizione che, una volta effettuato il nuovo acquisto, la casa in passato acquisita con il beneficio fiscale sia alienata entro un anno dal nuovo acquisto. Fino a tutto il 2015, per comprare una “prima casa” invece occorreva prima vendere la casa già posseduta e poi comprarne un’altra.

[1] Cass. sent. n. 1494/2016 del 27.01.16.

Affitto: con le modifiche apportate nel 2016, la registrazione del contratto di affitto spetta al padrone di casa

 

Registrazione contratto di locazione

 

Affitto: con le modifiche apportate nel 2016, la registrazione del contratto di affitto spetta al padrone di casa (locatore) che la deve comunicare all’inquilino entro 30 giorni.

La registrazione del contratto di locazione (anche detto affitto, anche se il termine si riferisce solo alla locazione di beni produttivi come l’impresa) è uno dei temi più importanti in materia di locazione di immobili per uso abitativo: non solo per i risvolti fiscali (l’eventuale evasione che ne deriverebbe sarebbe colpita dalle sanzioni tributarie), ma anche per quelli civilistici (un contratto non registrato si considera inesistente e, pertanto, dà al conduttore il diritto di chiedere la restituzione dei canoni pagati in esubero entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile).

Peraltro la materia è stata recentemente modificata dalla Legge di Stabilità per il 2016 [1] che ha previsto una disciplina di maggiore tutela per gli inquilini nel caso di affitto in nero (leggi la nostra guida “Affitto in nero: se il padrone di casa non registra la locazione”).

In questa sede, tuttavia, ci occuperemo degli adempimenti relativi alla registrazione dell’affitto, i soggetti tenuti all’adempimento, su chi grava il pagamento dell’imposta, la procedura per la registrazione.

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Chi deve registrare il contratto di affitto?

Con l’approvazione della legge di Stabilità 2016, il contratto di locazione deve essere “dichiarato” unicamente dal padrone di casa, che dovrà recarsi all’ufficio competente per il pagamento dell’imposta di registro. La nuova norma stabilisce che la registrazione debba essere inderogabilmente richiesta entro 30 giorni dalla firma del contratto, altrimenti scatta la mora.

Una volta eseguita la registrazione, il locatore deve darne comunicazione al conduttore (l’inquilino) entro i successivi 60 giorni, fornendo prova del pagamento dell’imposta. Stessa comunicazione documentata va inviata all’amministratore di condominio affinché questi aggiorni il Registro di anagrafe condominiale.

Chi deve pagare la registrazione dell’affitto?

Fino al 1° gennaio 2016, entrambe le parti rispondevano in solido del pagamento; ciò significa che se l’agenzia delle entrate accertava il mancato versamento dell’imposta di registro, ne poteva chiedere la corresponsione, comprensiva di interessi e sanzioni, ad entrambi ed il pagamento di uno dei due contribuenti avrebbe liberato anche l’altro.

La questione, però, sembra essere superata con la nuova legge di Stabilità che, come detto, ha posto solo a carico del locatore l’obbligo di registrazione. Sebbene la nuova norma non lo dica espressamente, sembrerebbe ragionevole ritenere che, a partire dal 1° gennaio 2016, l’unico soggetto tenuto, nei confronti del fisco, al versamento dell’imposta di registro è il locatore. Questo significa che, in mancanza di registrazione del contratto da parte di quest’ultimo, l’Agenzia delle Entrate non potrà inviare alcuna richiesta di pagamento all’inquilino.

Per quanto invece riguarda la legge civile che regola gli affitti [2] essa continua a stabilire che le spese di registrazione del contratto sono a carico del conduttore e del locatore in parti uguali. È ammessa una diversa pattuizione che preveda di far gravare l’intera imposta sul locatore; secondo la giurisprudenza è, invece, nulla la pattuizione inversa. In ogni caso, entrambe le parti rispondono in solido del pagamento; ciò significa che se l’agenzia delle entrate accerta il mancato versamento dell’imposta di registro, ne chiederà la corresponsione, comprensiva di interessi e sanzioni, ad entrambi ed il pagamento di uno dei due contribuenti libererà anche l’altro (art. 57 DPR 131/86).

Ogni quanto va pagata l’imposta di registro?

L’imposta può essere assolta, alternativamente, con frequenza annuale (per ciascun anno di durata del contratto) o in unica soluzione per l’intera durata, fruendo, in tal caso di una riduzione. In ogni caso, per la prima annualità l’importo versato non può essere inferiore a 67 euro.

Registrazione ordinaria o cedolare secca

In alternativa alla registrazione ordinaria, il locatore, se è una persona fisica che non agisce nell’esercizio di attività d’impresa, arte o professione, può optare, in sede di registrazione del contratto, per l’applicazione dell’imposta sostitutiva sui canoni di locazione, anche detta “cedolare secca“. L’imposta viene pagata in misura fissa e non è dovuta l’imposta di registro e di bollo sulle copie del contratto, per tutta la durata dello stesso, fino a revoca dell’opzione. Per i contratti di locazione a canone libero la cedolare secca si calcola applicando alla base imponibile l’aliquota del 21%.

La registrazione ordinaria del contratto di affitto

La registrazione ordinaria può avvenire in forma cartacea, presentando la richiesta all’ufficio di registro. Va allegata la seguente documentazione:

–  modello “Registrazione Locazione Immobili” (RLI) (reperibile presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate o sul sito internet www.agenziaentrate.gov.it), nel quale vanno riportate le informazioni relative al contratto;

–  se i contratti da registrare sono più di uno, bisogna predisporre un elenco, utilizzando il “modello RR”, in cui vanno indicati i contratti da registrare;

–  almeno due copie del contratto, con firma in originale;

–  i contrassegni telematici per il pagamento dell’imposta di bollo (ex marca da bollo), con data di emissione non successiva alla data di stipula, da applicare su ogni copia del contratto da registrare. L’importo dei contrassegni deve essere di 16 euro ogni 4 facciate scritte e, comunque, ogni 100 righe. In alternativa, le imposte di bollo e di registro possono essere versate richiedendo l’addebito sul proprio c/c utilizzando il modello richiesta di addebito su conto corrente bancario;

–  ricevuta di pagamento dell’imposta di registro

La registrazione telematica

La registrazione telematica può essere effettuata:

– direttamente dal locatore, previa richiesta di abilitazione ai servizi telematici (Fisconline o Entratel);

– dal professionista (ad esempio il notaio) che redige l’atto;

– tramite intermediario abilitato (dottori o ragionieri commercialisti iscritti all’albo, consulenti del lavoro, CAF, geometri, agenzie di mediazione immobiliare iscritte nei ruoli dei mediatori tenuti dalle Camere di Commercio, ecc.).

In pratica, la registrazione avviene utilizzando il software “RLI web” rinvenibile sul sito dell’Agenzia delle entrate www.agenziaentrate.gov.it. (Provv. AE 10 gennaio 2014), allegando una copia del contratto in formato TIF, TFF o PDF/A.

La copia non va allegata se il contratto presenta le seguenti caratteristiche:

– locazione di tipo abitativo;

– è stipulato tra persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di un’impresa, arte o professione;

– numero di locatori e di conduttori, rispettivamente, non superiore a tre;

– una sola unità abitativa ed un numero di pertinenze non superiore a tre;

– tutti gli immobili sono censiti con attribuzione di rendita;

– contiene esclusivamente la disciplina del rapporto di locazione e, pertanto, non comprende ulteriori pattuizioni.

Modalità di pagamento e misura dell’imposta

Le modalità di pagamento dell’imposta dipendono dalle modalità con cui è eseguita la registrazione: se si sceglie la registrazione su supporto cartaceo, va utilizzato il modello F24 Elide (anche telematico); se si utilizza la modalità telematica, il pagamento è anch’esso telematico e contestuale alla registrazione.

L’imposta di registro si applica in misura proporzionale se il locatore è un privato che non opera in regime di attività di impresa o professionale.
Se il locatore è un soggetto passivo IVA, l’imposta si applica in misura proporzionale.

Se la locazione è imponibile IVA, l’imposta di registro si applica in misura fissa pari a 67 euro, una sola volta per tutta la durata del contratto

Se l’immobile non è arredato, l’imposta di registro è dovuta nella misura del 2% sull’ammontare dei canoni pattuiti per l’intera durata del contratto.
Se la locazione riguarda un immobile arredato ed è divisa in due distinti contratti, riguardanti rispettivamente l’immobile e l’arredo in esso contenuto, ciascuno deve essere assoggettato all’aliquota propria: 2% per l’immobile e 3% per gli arredi; se il contatto è unico si applica invece l’aliquota del 2%.

 

[1] L. 208/2016.

[2] Art. 8 L. 392/1978.

Tettoia: demolizione, distanze minime e decoro architettonico

Tettoia: demolizione, distanze minime e decoro architettonico

 

Il pergolato o la tettoia deve rispettare le distanze minime con l’appartamento di sopra per non impedire la veduta, ma l’azione spetta solo al proprietario confinante e non al condominio.

Tettoie: croce e delizia di numerosi palazzi, oggetto di contestazioni perché in alcuni casi, situate a distanza inferiore a quella minima, tolgono l’aria a chi vive di sopra, impedendo il diritto alla veduta e all’affaccio; in altri casi pregiudicano il decoro architettonico dell’edificio; in altri ancora vengono costruite senza rispettare la normativa urbanistica che, per le costruzioni ancorare in modo stabile al suolo, prescrive il permesso di costruire. Si tratta, però, di tre regole che coinvolgono tre soggetti e branche del diritto differenti, sicché le conseguenze per la violazione delle rispettive norme sono completamente diverse. A fare il punto della situazione è una sentenza che la Cassazione ha pubblicato poche ore fa [1]. È quindi l’occasione per fare il punto di questa materia apparentemente contorta.

La tettoia deve rispettare il decoro architettonico

Vengono, in primo luogo, in rilievo le norme sul condominio che consentono a tutti i proprietari di appartamenti dello stabile di usare le parti comuni dell’edificio – ivi compresi anche i muri perimetrali – per appoggiare canne fumarie, tettoie, ecc., ma solo nella misura in cui ciò:

– non pregiudichi il pari uso della cosa comune da parte degli altri condomini;

– non violi il regolamento di condominio;

– non pregiudichi il decoro architettonico dell’edificio.

La violazione di tale regola consente all’amministratore di condominio di far valere il diritto comune di tutti i condòmini e ottenere l’abbattimento della tettoia o del pergolato installato dal singolo proprietario esclusivo in aderenza al muro comune del fabbricato.

Chi ha la rappresentanza dell’ente di gestione può agire solo a tutela dei beni condominiali come l’aspetto estetico dello stabile. Se invece – come vedremo nel prossimo punto – la tettoia ostruisce il mentre il diritto di veduta della singola unità immobiliare, l’amministratore non ha più competenza a intervenire, essendo l’azione rimessa all’iniziativa del proprietario leso.

La cassazione ha così confermato la linea dura contro pergolati e tettoie che turbano l’equilibrio architettonico del fabbricato: di esse viene disposto l’abbattimento se l’assemblea dà mandato all’amministratore di procedere contro le condotte del singolo proprietario esclusivo. Il professionista che ha la rappresentanza del condominio ben può intraprendere le azioni necessarie a tutelare il generale interesse di difesa delle parti comuni.

Distanze e calcoli

La tettoia deve rispettare le distanze minime tra le costruzioni (che vanno intese, infatti, non solo in senso orizzontale, tra costruzioni prospicienti, ma anche verticale, tra appartamenti l’uno superiore all’altro). La distanza minima fissata dal codice civile è di 3 metri.

In tal caso, l’ordine di demolizione può scattare solo l’iniziativa giudiziaria viene intrapresa dal proprietario del piano di sopra, costretto dalle tegole della tettoia a perdere aria, luce e panorama.

In questo caso, infatti, la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti di veduta spetta a ogni singolo proprietario esclusivo e non all’amministratore di condominio.

Permesso di costruire

Se la tettoia è fissa e ancorata al muro in modo stabile, finalizzata a soddisfare un bisogno non momentaneo ma duraturo, essa necessita del permesso di costruire. Senza l’autorizzazione amministrativa il manufatto deve essere demolito. In questo caso, però, l’iniziativa spetta solo all’ente pubblico, non avendo alcun diritto (se non la possibilità di effettuare una semplice demolizione), il proprietario vicino o l’amministratore di condominio.

Si salva solo la tettoia rimovibile, privi di fondazione, non stabilmente ancorati al suolo.

L’indipendenza delle norme

Il rispetto di una delle predette tre prescrizioni non implica necessariamente il rispetto delle altre. Ben si potrebbe, allora, avere una tettoia che, pur conforme ai vincoli urbanistici, avendo ricevuto il relativo permesso, venga però costruita a distanza troppo ravvicinata dalla finestra del piano di sopra. Il fatto che il Comune abbia autorizzato la costruzione dell’opera non esclude che la stessa debba essere demolita perché non rispettosa delle altre regole di diritto privato o condominiale.

 

La sentenza

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 9 dicembre 2015 – 27 gennaio 2016, n. 1549
Presidente Mazzacane – Relatore Oricchio

Considerato in fatto

Il Condominio di via (…) di R. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Chiavari il condomino R.P. rappresentando che lo stesso aveva realizzato una costruzione ed apposto gronde in aderenza al muro condominiale con ciò ledendo il diritto di veduta di tutti i rimanenti condomini ed alterando l’aspetto estetico ed architettonico dell’edificio condominiale.
Chiedeva, quindi, parte attrice la condanna del convenuto alla rimessione in pristino mediante demolizione dei manufatti.
Costituitosi in giudizio il R. contestava l’avversa domanda deducendone l’infondatezza e chiedendone il rigetto.
L’adito Tribunale, con sentenza n. 275/2006, rigettava la domanda proposta dal Condominio, che veniva condannato al pagamento della metà delle spese di lite e di ctu.
Avverso la suddetta decisione interponeva appello il Condominio, chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza.
Resisteva al gravame il R. , formulando – inoltre – appello incidentale quanto alla ripartizione delle spese processuali.
L’adita Corte di Appello di Genova, con sentenza n. 382/2010, in accoglimento dell’appello principale condannava il R. a rimuovere dal proprio giardino due pergolati e le tre tettoie in atti individuate, nonché a rifondere le spese di lite.
Per la cassazione della succitata decisione della Corte territoriale ricorre il R. con atto affidato a sette ordini di motivi.
Resiste con controricorso il Condominio intimato.
Nell’approssimarsi dell’udienza hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. entrambe le parti.

Ritenuto in diritto

1.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di “violazione dell’art. 1130 e 1131 c.c. (ai sensi dell’) art. 360 n. 3 c.p.c.”.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di “violazione dell’art. 100 c.p.c. (ai sensi dell’) art. 360, n. 4 c.p.c.”.
3.- Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta, ai sensi dell’”art. 360, n. 3 c.p.c. la falsa applicazione dell’art. 873 c.c.”.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio di “omessa motivazione su un fatto controverso decisivo per il giudizio (ovvero) l’esistenza di una profondità dei pergolati tale da richiedere l’arretramento, ma non anche la loro rimozione” ex art. 360, n. 5 c.p.c..
5.- Gli esposti primi quattro motivi del ricorso possono trattarsi congiuntamente per la loro connessione ed in quanto relativi all’aspetto della controversia relativo agli anzidetti pergolati.
I motivi sono del tutti infondati.
Non sussiste, nell’ipotesi, la carenza di legittimazione passiva in capo all’Amministratore del Condominio (come prospettato col primo motivo del ricorso).
La questione (che, peraltro, non viene allegata come motivo già prima svolto nel corso del giudizio)è infondata.
Innanzitutto risulta adottata in data 14 dicembre 1991 delibera con cui l’assemblea condominiale disponeva di “promuovere causa”.
Inoltre L’Amministratore del Condominio ben poteva intraprendere le azioni necessarie a difesa della proprietà condominiale al cospetto delle prospettate violazioni ascrivibili al R. e compromettenti il generale interesse della tutela delle parti condominiali.
Tale considerazione comporta altresì e conseguentemente l’infondatezza del secondo motivo relativo alla pretesa mancanza di interesse sia del Condominio che dei singoli condomini.
Infatti quest’ultimi (sia il primo che i secondi), in ordine alle di loro rispettive proprietà, avevano interesse alla tutela delle stesse porzioni immobiliari.
Giova, in proposito, evidenziare immediatamente la differenza fra la tutela apprestata dall’ordinamento in relazione all’art. 873 c.c. e quella, differente (e di cui si dirà in seguito sub 6), relativa al diritto di veduta della singola unità immobiliare e, quindi, di ciascun proprietario di appartamento, con tutte le ovvie conseguenze in tema di legittimazione ad agire.
D’altra parte, l’ampia previsione dell’art. 873 c.c. ben giustificava e costituiva il fondamento, nella fattispecie, dell’interesse alla tutela delle proprietà nei confronti ed al cospetto di attività e realizzazioni di opere individuate come lesive.
Infondata è anche la questione (di cui al terzo motivo) relativa alla configurazione della natura dei pergolati di cui in ipotesi.
Quest’ultimi, in quanto realizzazioni stabilmente ancorate al suolo, non potevano che essere inquadrate nel novero concettuale di costruzione e, quindi, come tale lesiva dei diritti azionati in giudizio.
Neppure sussiste il difetto motivazionale lamentato con il quarto motivo del ricorso,a mezzo del quale si richiede – nella sostanza – di ritenere che “l’esistenza della profondità dei pergolati era tale da richiedere l’arretramento e non anche la loro rimozione”.
L’impugnata sentenza risulta, in punto, fondata su congrua motivazione esente da vizi logici riscontrabili in questa sede.
Deve, per più al riguardo, riaffermarsi (ad ulteriore riprova dell’infondatezza del quarto motivo) noto principio già affermato da questa Corte ( Cass. civ., Sez. Seconda, Sent. 27 aprile 2006, n. 9640), secondo cui “deducendo che era sufficiente, ai fini del rispetto delle distanze” ed allo scopo precipuo di ottenere – in luogo della demolizione – (a disposizione e “l’adozione di (altri) specifici accorgimenti………è sempre||e^essario che la parte interessata chieda al Giudice stesso l’adozione di tale potere” (cosa non risultante nella fattispecie).
I primi quattro motivi del ricorso devono, dunque, essere tutti respinti.
6.- Con il quinto motivo si deduce la violazione degli “artt. 1130 e 1131 c.c. (in relazione all’) art. 360 n. 3 c.p.c.” in quanto “la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti di veduta spetta a ciascun singolo condomino che ne è titolare esclusivo e non all’amministratore del condominio”.
Il motivo è fondato.
La legittimazione ad agire per la specifica tutela dei diritti di veduta non può che appartenere ai singoli condomini.
In assenza di ogni altra allegazione quanto alla possibilità di coesistenza di vedute di singoli condomini e di vedute quali, ad esempio, quelle delle finestre delle scale del condominio, il diritto di veduta a favore delle singole unità abitative è proprio del titolare della proprietà di ciascun singola appartamento e, pertanto, non del Condominio, ma del singolo condomino-proprietario. Il motivo qui scrutinato deve, quindi, essere accolto.
7.- Con il sesto motivo si censura l’”insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio” ovvero “circa il mancato rispetto delle distanze (punto più sporgente tettoie e facciata muro condominiale)”.
In proposito, richiamandosi quanto innanzi già affermato (pur se con riferimento al diverso aspetto della legittimazione processuale) sub 5. e 6., va considerato quanto segue.
La valutazione delle prescritte distanze con riferimento al punto massimo di sporgenza delle tettorie andava comunque svolta con specifica e chiara motivazione in punto di calcolo delle stesse con riguardo alla lesione di diritti individuali di singoli condomini e/o di diritti inerenti beni condominiali.
Differente sarebbe, infatti, la soluzione da dare in concreto alla vicenda se si trattasse di computo distanze nei confronti si singola proprietà individuale di un condomino ovvero nei riguardi di beni condominiali.
A tale principio non può non ispirarsi una attenta valutazione del denunciato aspetto del mancato o meno rispetto delle distanze in relazione al quale viene mossa la censura di carenza motivazionale. Poiché, in proposito, la motivazione della gravata decisione appare carente il motivo in esame deve ritenersi fondato e va, conseguentemente accolto.
8.- Con il settimo motivo si deduce la “violazione dell’art. 1102 c.c. in rapporto all’art. 907, 3 co. c.c. (in relazione all’) art. 360, n. 3 c.p.c.” Parte ricorrente prospetta la asserita necessità, nella fattispecie, della “verifica della prevalenza o meno delle norme di uso comune (1102) su quelle relative alle distanze legali (907, 3 co. c.c.)”.
La prospettata censura è del tutto destituita di fondamento.
Nessuna norma di uso comune può (né risulta mai essere stata utilizzata a tal fine) comportare il superamento delle prescrizioni di legge in materia di rispetto delle distanze legali.
L’impugnata sentenza è quindi, del tutto immune dalla formulata censura che non può essere accolta.
9.- In conseguenza dell’accoglimento del quinto e del sesto motivo del ricorso, va disposta la cassazione dell’impugnata sentenza ed il rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Genova affinché la stessa decida la controversia uniformandosi ai principi innanzi enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto ed il sesto motivo del ricorso, rigettati i rimanenti, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte di Appello di Genova.

[1] Cass. sent. n. 1549/16 del 27.01.16.

Contratto preliminare di vendita: se manca la fideiussione

 

Contratto preliminare di vendita: se manca la fideiussione

Compravendita immobiliare: nullo il compromesso per mancata consegna della fideiussione da parte del costruttore-venditore che non può neanche rimediare in un momento successivo.

Il costruttore di un immobile, al momento della firma del contratto preliminare (cosiddetto compromesso) di un immobile da costruire è obbligato, per legge [1], a consegnare al futuro acquirente una fideiussione a garanzia degli acconti che quest’ultimo eseguirà prima della stipula del contratto definitivo (l’importo della fideiussione deve essere, infatti, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore riscuota prima della firma del rogito notarile). In caso contrario il preliminare è nullo e l’acquirente può tirarsi indietro dall’affare in qualsiasi momento.

Con una recente sentenza [2], la Corte di Appello di Lecce ha decretato che tale nullità non è sanabile neanche se detta fideiussione venga consegnata all’acquirente in un momento successivo alla stipula del contratto preliminare.

La nullità per la mancata consegna della fideiussione è una nullitàrelativa”: può cioè essere fatta valere unicamente dall’acquirente. Il costruttore deve dunque munirsi di una fideiussione (rilasciata da una banca, o da un’assicurazione oppure da altro intermediario finanziario a ciò abilitato) che garantisca l’adempimento del suo eventuale obbligo di restituire dette somme qualora venga a trovarsi in una situazione di crisi e, non potendo portare a termine la costruzione del palazzo, il contratto si sciolga e sia costretto a ridare al compratore le somme percepite a titolo di acconto o caparra. Se non ci fosse questa norma, chi acquista un immobile sulla carta” subirebbe un rischio troppo eccessivo in caso di fallimento del costruttore perché, per ottenere la restituzione degli anticipi corrisposti prima di diventare definitivamente proprietario dell’appartamento, dovrebbe fare un’insinuazione al fallimento e concorrere alla ripartizione dell’attivo con tutti gli altri creditori chirografari, per percentuali. Con il rischio di non rivedere mai i propri soldi o rivederli dopo molto tempo. Invece, la norma in commento garantisce l’intervento di un’assicurazione per il pagamento degli anticipi, in caso di crisi del costruttore.

La fideiussione da consegnare all’acquirente deve possedere determinate caratteristiche inderogabili, e più precisamente:

– deve prevedere che il fideiussore sia tenuto a pagare solo dopo l’infruttuosa escussione del debitore principale (cosiddetta rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale);

– deve poter essere escussa, una volta verificatasi la situazione di crisi, a semplice “richiesta scritta dell’acquirente”, da inviarsi al domicilio indicato dal fideiussore a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento e corredata da idonea documentazione comprovante l’ammontare delle somme e il valore di ogni altro eventuale corrispettivo che complessivamente il costruttore abbia riscosso.

Secondo la sentenza in commento, inoltre, la consegna della fideiussione deve avvenire, al più tardi, all’atto della stipula del contratto preliminare; la mancata consegna non è rimediabile da successivo comportamento di alcuna delle parti.

 

La sentenza

Corte d’Appello di Lecce, sez. civ. II, 14.5.2015, n. 222

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ordinanza ex art.702 ter c.p.c. n. 61212010 il tribunale di Taranto – sez. dist. di Martina Franca dichiarava la nullità di contratto preliminare di vendita intercorso tra E. S.r.l. (promittente venditrice) e C. G. (promittente acquirente) ilZ8l2l2009 nonché di collegati contratto preliminare di permuta del51412006 e di compravendita di terreno del614/2009. Riteneva il tribunale che: il primo dei suindicati contratti era nullo perché la fideiussione di Euro 170.000,00, prescritta dall’art. 2 decr. l.vo 221/2005, era stata rilasciata in data successiva al contratto e non corrispondeva al prezzo riscosso dal costruttore (Euro 220.000,00, pari al valore del terreno edificabile permutato, di cui all’atto pubblico del 61412009); inoltre, nella fideiussione non era rispettata la condizione (art. 3 decr. lgs. 12212005) di rinunzia alla preventiva escussione del debitore principale; l’efficacia della fideiussione avrebbe dovuto cessare al momento del trasferimento della proprietà, mentre nella specie la relativa scadenza era fissata al 30/9/2011 e nel preliminare non era chiara la data della stipula; il preliminare era generico nella determinazione dell’immobile da costruire; conseguentemente alla nullità della compravendita del 6/4/2009, al ricorrente competeva la restituzione del terreno ed alla resistente la restituzione di Euro 50000,00 (versata in sede di stipula), da compensare tuttavia col pari importo versato quale acconto del prezzo dell’immobile da costruire, in sede di preliminare; gli competevano però gli interessi legali su questa somma dal dì del pagamento; il danno subito dal ricorrente doveva essere rapportato alla mancata apprensione del bene futuro ed al mancato trasferimento del terreno edificabile, sicché poteva essere liquidato in Euro 25000,00.

Avverso questa ordinanza ha interposto appello la E. srl, osservando che: la fideiussione di Euro 170000,00 era coerente col prezzo di vendita dell’immobile fissato in Euro 170000,00, oltre iva; era irrilevante il rilascio della fideiussione in data posteriore al preliminare, essendo comunque sussistita accettazione del C.; la compravendita del suolo non poteva provocare il 6/4/2009 la nullità di un preliminare anteriore; al momento della vendita del terreno il bilancio era tale per cui la E S.r.l. aveva ricevuto dal C. un controvalore pari ad Euro 170000,00 (Euro 220000,00, quale valore del terreno – Euro 50000,00, versati al C.); all’allegato 1) dell’atto di fideiussione era prevista la rinunzia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, condizíone questa prevalente sulle condizioni generali di contralto; all’allegato 1) era previsto che l’efficacia della fideiussione cessava al momento del trasferimento della proprietà; l’immobile promesso in vendita era esattamente determinato nel preliminare; al tempo del preliminare di permuta (5/4/2006) non era stato ancora domandato il permesso di costruire, invero richiesto iI 25/7/2006; la nullità di un negozio di adempimento non poteva comunicarsi al negozio originario; non poteva configurarsi responsabilità per culpa in contrahendo allorché la causa di invalidità derivi da norma di legge; il quantum risarcitorio era stato determinato in misura arbitraria.

C.G. ha analiticamente contestato i motivi di gravame.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’art. 2 decr. l.vo 122/2005 stabilisce che “All’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fìdeiussione, anche secondo quanto previsto dall’articolo 1938 del codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento”.

Innanzitutto, sotto questo profilo, nessuna nullità può investire il preliminare di permuta del 5/4/2006, in sé considerato, poiché a tale data non era stato ancora richiesto il permesso di costruire (nel preliminare di vendita del28/2/2009 le parti si danno atto che questo permesso è stato richiesto in data 25/7/2006), presupposto necessario per l’operatività dell’art.2 d. lvo 122/2005 (l’art. 1 di questo d. l.vo chiarisce che si intendono immobili da costruire “gli immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire”). Circa il preliminare di vendita del 281212009, risulta che: il prezzo ivi concordato ammontava ad Euro 170000,00, importo pari a quello indicato nell’atto di fideiussione; nel preliminare la scadenza per il pagamento del

saldo del prezzo e del rogito notarile era indicata al 30/9/2011, termine di efficacia anche della polizza fideiussoria; nelle condizioni aggiuntive della polizza era prevista la rinunzia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, in ossequio al disposto dell’art. 3 decr. l.vo 122/2005.

Inoltre, l’immobile era sufficientemente descritto ed identificato all’interno del contratto preliminare. Senza tacere che eventuale divergenza descrittiva rispetto alla previsione di cui all’art. 6 decr. l.vo 122/2005 non risulta sanzionata da nullità. Tuttavia, è pacifico che la polizza fideiussoria non è stata rilasciata contestualmente alla redazione del preliminare, bensì posteriormente, trasgressione questa sanzionata da nullità del negozio (art. 2 decr. l.vo 122/2005), non sanabile da successivo contegno di alcuna delle parti.

Non esistono però ragioni giuridiche perché siffatta nullità debba (o possa) comunicarsi ad atto precedente (il preliminare di permuta) o successivo (la compravendita di terreno).

Infatti, benché nell’intenzione dei contraenti il preliminare di vendita dell’appartamento e la compravendita del terreno fossero da coordinare in uno stesso progetto economico, espresso dal precedente preliminare di permuta, non è a dubitarsi che ciascun negozio ha conservato la rispettiva autonomia, come peraltro desumibile dall’assenza di richiami nei relativi testi.

Appare peraltro ardua la configurazione della nullità di un negozio anteriore (il preliminare di permuta) sulla base di un difetto di forma di un negozio posteriore nonché della nullità di un atto pubblico posteriore, perfetto nei suoi elementi, sulla base del medesimo estrinseco difetto di un autonomo negozio anteriore, difetto peraltro rilevante solamente in una distinta fattispecie (promessa di vendita di immobile da edificare).

Alla nullità del negozio preliminare del 28/2/2009 consegue l’obbligo della E. S,r.l. alla restituzione del ricevuto acconto di Euro 50000,00, da maggiorare di interessi legali dal dì del pagamento.

Va negata la risarcibilità di danni conseguiti alla presunta culpa in contrahendo della promittente venditrice, sia perché “La responsabilità prevista dall’art. 1338 cod. civ., a differenza di quella di cui all’art. 1337 stesso codice, tutela l’affìdamento di una delle parti non sulla conclusione del contratto, ma sulla sua validità, sicché non è configurabile una responsabilità precontrattuale della P.A. ove l’invalidità del contratto derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e quindi tali da escludere l’affidamento incolpevole della parte adempiente” (Cass. Civ. 7481/2007) sia perché non consta che si siano verificati (ed in quale misura) pregiudizi economicamente apprezzabili a carico del promittente compratore.

La parziale reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi.

P .Q.M.

La Corte d’Appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto così decide:

l) Accoglie per quanto di ragione l’appello interposto da E. S.r.l. averso l’ordinanza n. 612/2010 del tribunale di Taranto – sez. dist. di Martina Franca e per l’effetto, in riforma parziale di questa: a) rigetta la domanda di nullità del contratto preliminare di permuta del 5/4/2006 e del contratto di compravendita del terreno (atto pubblico del 6 aprile 2009 per notar R., rep. 89734/fasc. 29947); b) condanna la E. S.r.l. alla restituzione della somma di Euro 50000,00, oltre interessi come da motivazione; c) rigetta ogni altra domanda, compresa l’istanza risarcitoria; d) dichiara compensate tra le parti le spese di lite;

2) Conferma l’impugnata ordinanza sul punto riguardante la dichiarata nullità del contratto preliminare di vendita del 28/2/2009:

3) Spese di questo grado compensate
Così deciso in Taranto il 6 maggio 2015 Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2015

[1] Art. 2 d.lgs. n. 122 del 20.06.2005

[2] C. App. Lecce sent. n. 222/20015.

Ipoteca: cancellazione ed estinzione

 

 

Ho estinto il mio debito: come posso ottenere la cancellazione dell’ipoteca sull’immobile di mia proprietà?

L’ipoteca è una garanzia che dà diritto al creditore che ne è titolare, di soddisfarsi in via privilegiata sul ricavo derivante dall’eventuale vendita all’asta dell’immobile ipotecato nel caso in cui avvenga tale ipotesi [1]. Essa viene iscritta sui beni immobili singolarmente determinati e sussiste per intero e sopra ogni loro parte, per cui potrebbe capitare che il valore dell’immobile ipotecato sia maggiore rispetto al credito che garantisce. Se questo maggior valore del bene rispetto al credito è superiore ad un terzo dell’importo dei crediti iscritti, accresciuti degli l’interessi [2], su domanda degli interessati, è possibile chiedere la riduzione dell’ipoteca attraverso la riduzione della somma per la quale è stata presa d’iscrizione, oppure riducendo l’iscrizione soltanto una parte dei beni garantiti. [3]

Per l’ipoteca è fondamentale distinguere tra l’estinzione e la cancellazione. L’ipoteca, una volta estinta non vale più a garanzia del credito per il quale era stata iscritta, tuttavia, nonostante l’estinzione, essa potrebbe rimanere ancora iscritta sul registro immobiliare perché non ancora materialmente cancellata. La cancellazione dell’ipoteca consiste, invece, nell’eliminazione definitiva di tutte le formalità iscritte nei registri immobiliari. Ricapitolando l’estinzione non comporta necessariamente la cancellazione dell’ipoteca dal registro immobiliare mentre la cancellazione comporta sempre l’estinzione dell’ipoteca.

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I casi di estinzione dell’ipoteca sono [4]:

cancellazione dell’ipoteca da parte del creditore;

– mancato rinnovo dell’ipoteca, da parte del creditore, decorsi venti anni dalla sua iscrizione;

– estinzione dell’obbligazione per la quale era stata iscritta l’ipoteca (per es. il debitore paga per intero il suo debito);

distruzione dell’immobile sul quale grava l’ipoteca;

rinuncia all’ipoteca da parte del creditore;

– scadenza del termine o della condizione ai quali l’ipoteca era stata limitata; il tribunale emette il provvedimento con cui espropria il bene su cui grava l’ipoteca e ordina la cancellazione di quest’ultima.

Una volta estinta l’ipoteca, l’interessato può chiederne la cancellazione dal registro immobiliare in modo che l’immobile risulti pubblicamente libero da vincoli.

La cancellazione avviene con modalità differenti a seconda del tipo di ipoteca (volontaria o giudiziale).

La cancellazione dell’ipoteca volontaria (quella cioè iscritta su volontà delle parti, debitore e creditore) può essere ottenuta:

– con modalità automatica e gratuita, a condizione che l’ipoteca sia stata iscritta a garanzia di un contratto di mutuo o finanziamento: la banca o (l’interessato stesso) comunica all’Agenzia del Territorio l’avvenuta estinzione dell’ipoteca affinché gli uffici competenti provvedano alla cancellazione;

– mediante atto notarile: in questo caso è il notaio a comunicare l’avvenuta estinzione agli uffici competenti, presentando un atto che attesta il consenso del creditore alla cancellazione.
L’ipoteca giudiziale (quella cioè iscritta a seguito di un provvedimento del giudice) può essere cancellata solo tramite ordine del giudice, provvedimento che presuppone un’apposita procedura giudiziale.

 

[1] Art. 2808 cod. civ.

[2] Art. 2875 cod.civ.

[3] Art. 2872 cod. civ.

[4] Art. 2878 cod. civ.

Distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato

 

Impianti autonomi e oneri successivi al distacco: quando si può procedere e quando conviene.

Con la diffusione della rete di distribuzione del gas metano si sono moltiplicati negli ultimi anni i casi di distacco dei condomini dall’impianto centralizzato di riscaldamento.

Diventando una pratica assai frequente rispetto al passato, il distacco ha inevitabilmente finito con il porre diversi problemi sia pratici che legali ai quali negli ultimi tempi la normativa ha perlomeno tentato di dare una soluzione.

Ha solo qualche mese di vita, infatti, la normativa [1] secondo cui nel caso di ristrutturazione o di nuova installazione di impianti termici di potenza tecnica nominale del generatore maggiore o uguale a 100 Kw ed anche nel caso di distacco dall’impianto centralizzato di un solo condomino, deve essere eseguita una diagnosi energetica dell’edificio e dell’impianto che metta a confronto le diverse soluzioni impiantistiche compatibili e la loro efficacia sotto il profilo dei costi complessivi (cioè investimento, esercizio e manutenzione).

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Per procedere al distacco, quindi, è obbligatoria dal 1° ottobre 2015 una diagnosi energetica dell’edificio e dell’impianto i cui costi, evidentemente, ricadono sul condomino intenzionato ad effettuare il distacco.

Tale diagnosi energetica è finalizzata a rendere più agevole l’esercizio del diritto del condomino [2] di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.

Se, quindi, risulterà dimostrato che il distacco non aggrava notevolmente il funzionamento dell’impianto o le spese per gli altri condomini (è sufficiente che si verifichi una delle due condizioni per impedire il distacco) il distacco sarà consentito, ma il condomino distaccato sarà comunque tenuto, dal momento del distacco, a pagare:

– le spese di manutenzione straordinaria dell’impianto;

– le spese finalizzate alla sua conservazione e messa a norma (nulla più, perciò, quanto a consumi).

È chiaro, perciò, che anche la diagnosi energetica imposta a partire dal 1° ottobre 2015 ha lo scopo di rendere evidente, attraverso l’intervento di un tecnico, quanto il distacco possa incidere sui costi complessivi e, perciò, se esso possa determinare o meno disfunzioni nell’impianto o spese eccessive per gli altri condomini.

È importante precisare che, come aveva già stabilito la giurisprudenza [3] prima ancora della modifica della legge [4], se è provato, da parte del condomino che intende distaccarsi, che dal suo distacco non deriveranno né aggravi di spesa per gli altri condomini, né squilibri termici all’interno dell’edificio, allora il distacco non dovrà nemmeno essere autorizzato o approvato dagli altri condomini.

Riassumendo, infine, diremo che oggi il condomino che intende distaccarsi:

– deve preventivamente far eseguire a proprie spese una diagnosi energetica dell’impianto e dell’edificio;

– se dalla diagnosi (che comunque va eseguita) o da altra documentazione ed analisi tecnica risulterà che il distacco non comporterà un aggravio di spese per gli altri condomini o non altererà notevolmente il funzionamento dell’impianto, il condomino potrà, senza alcuna autorizzazione, distaccarsi e da quel momento sarà tenuto a pagare solo le spese di manutenzione straordinaria, di conservazione e di messa a norma dell’impianto centralizzato (ciò perché il distacco non equivale a rinuncia alla proprietà dell’impianto centralizzato).

 

[1] D.m. del 26 giugno 2015.

[2] Art. 1118, 4° comma, cod. civ.

[3] Cass. civ., sentenza n. 5974 del 25 marzo 2004.

[4] L. n. 220 del 2012.

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Sopraelevazione sulla proprietà: quali limiti se c’è un fabbricato adiacente?

 

 

Vorrei avere conferma del mio diritto a costruire in sopraelevazione su una mia proprietà costituita da parte di villetta bifamiliare, unita ad altra proprietà adiacente alla prima. Le due proprietà sono separate da un unico muro che fa da confine ad entrambe. Il progetto è già stato autorizzato dall’Amministrazione Comunale con la formula “Salvo diritto di terzi”, ma il confinante ritiene che io non abbia tale diritto. So che esiste giurisprudenza altalenante a riguardo.

Prima di rispondere al quesito occorre innanzitutto premettere che nel caso di specie, trattandosi di “costruzione in sopraelevazione su fondo finitimo unito e aderente”, non trova applicazione la disposizione del codice civile secondo la quale “le costruzioni sui fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore” [1]. Acclarato ciò, occorre comprendere quale sia l’orientamento della giurisprudenza in materia.

A riguardo esistono due pronunce della Cassazione che sembrerebbero essere – a prima vista – diverse e contraddittorie tra loro.

La prima [2] – che è anche la più attuale – ha stabilito il principio secondo il quale “in tema di distanze nelle costruzioni, quando due fabbricati sono in aderenza, il proprietario di uno di essi non può dolersi della costruzione da parte del proprietario dell’altro di un muro sul confine, al di sopra del fabbricato”; ciò in quanto il limite dei tre metri previsto dalla legge [1] “trova applicazione soltanto con riguardo a costruzioni su fondi finitimi non aderenti, essendo, pertanto, in tali casi legittima la sopraelevazione effettuata in aderenza sopra la verticale della costruzione preesistente”. Tale orientamento, dunque, avvalora la tesi del lettore.

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Come se già non bastasse, la Suprema Corte ha anche motivato di aver così deciso tenendo conto del fatto che “la Corte di appello ha motivato la propria decisione di rigetto richiamando le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio che, “nel descrivere lo stato dei luoghi, dichiara che i fabbricati delle parti sono in aderenza e che il confine tra loro coincide con la linea di aderenza tra i due corpi di fabbrica”; ha quindi ritenuto che “i fabbricati sono esclusi dall’ambito di operatività dell’art. 873 c.c. e, poiché l’abbaino più vicino al confine e non a distanza legale di tre metri ha il muro esterno che coincide esattamente con la prosecuzione verso l’alto della linea di confine, anch’esso è aderente al fabbricato di controparte”.

In buona sostanza, la Corte di Cassazione ha rimarcato la circostanza che ben ha fatto la Corte di Appello ad attenersi alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio, poiché dette risultanze costituiscono accertamenti di fatto che possono essere oggetto del giudizio di cassazione solamente sotto il profilo della motivazione.

Ed infatti, nel prosieguo della motivazione, la su citata sentenza ha chiarito che “l’affermazione del giudice di merito, secondo cui i fabbricati delle parti risultano tra loro in aderenza e l’ampliamento costruttivo realizzato dai convenuti proseguiva verso l’alto in proiezione verticale con la linea di confine, costituiscono invero accertamenti di fatto non suscettibili, come tali, di sindacato in sede di giudizio di legittimità se non sotto il profilo della motivazione, che nella specie risulta sufficiente ed adeguata mediante richiamo alle conformi risultanze della consulenza tecnica d’ufficio”.

La predetta sentenza, quindi, da sola indica la strada da seguire.

Ma procediamo oltre, esaminando anche un’altra pronuncia della Suprema Corte [3] che sembra dire l’esatto contrario, ma che in realtà, ad una più attenta lettura, lascia emergere che non è proprio così, per le ragioni qui di seguito esposte.

Il caso sottoposto all’esame della Corte riguarda una costruzione avvenuta all’interno di un Comune (quello di Varedo) in cui vige una normativa regolamentare locale in materia di costruzioni sul confine che sposta i termini della questione. Nel regolamento edilizio del suddetto comune [4], infatti si legge testualmente “la distanza fra gli edifici di nuova costruzione non dovrà essere inferiore alla media delle altezze; di conseguenza la distanza minima dai confini sarà 1/2 dell’altezza e comunque mai inferiore ai metri 5. È prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale norma non si applica in caso di sopraelevazioni consentite, di fabbricati esistenti, limitatamente alle strutture portanti. In ogni caso la distanza delle pareti perimetrali tra fabbricati o dal confine o dagli spazi pubblici deve essere calcolata nel rispetto delle vigenti norme regolamentari”.

A parere di chi scrive,  dunque, tutta la vicenda deve essere vista alla luce di tale disposizione regolamentare. Ed infatti, la Corte, nella motivazione della sentenza, mette in risalto di condividere le conclusioni della medesima Corte che, in un caso analogo [5], proprio in riferimento al regolamento edilizio del Comune di Varedo, ha affermato che la norma testè riportata [6] (che detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati)” ha quale principio informatore (al pari della richiamata normativa statuale in materia alle cui disposizioni di massima inderogabili si adegua) non la regolamentazione dei rapporti interprivati in relazione alle distanze tra proprietà finitime, ma la salvaguardia d’interessi generali, connessi all’igiene, alla sicurezza, al decoro degli abitati, da realizzarsi attraverso la determinazione delle proporzioni tra spazi liberi e volumi edificati mediante, tra l’altro, la predeterminazione delle distanze minime tra fabbricati nell’ambito di zone territoriali omogenee”.

In buona sostanza, secondo la Corte, la specificazione sopra riportata ha come unico obiettivo di evitare che l’edificazione di fabbricati a distanza esigua l’uno dall’altro possa determinare la costituzione d’intercapedini dannose, di spazi tra fabbricati la cui ampiezza non sia in grado di assicurare quella condizione d’aerazione, luminosità ed igiene che è considerata minima indispensabile alle esigenze di vita degli abitanti.

Per tale ragione, secondo la Corte “possono essere considerate consentite da dette norme opere che, pur delimitando degli spazi, tuttavia, a determinate condizioni, consentano la circolazione dell’aria e non limitino la luminosità, quali porticati o logge o balconi o scale esterne in aggetto, e non consentite, per contro, le medesime opere ove gli spazi dalle stesse delimitati vengano trasformati in volumi chiusi mediante tamponatura con qualsiasi genere di materiali.”

In conclusione, perciò, la Corte statuisce che “la norma regolamentare in esame consente la sopraelevazione degli edifici esistenti sul medesimo allineamento di essi, in deroga alla distanza minima precedentemente stabilita in metri 5 dai confini ed in metri 10 tra pareti finestrate, limitatamente alle sole strutture portanti, id est ai pilastri e simili, in quanto tali strutture consentono la circolazione dell’aria e non limitano sensibilmente la luminosità, mentre ribadisce che le pareti debbono “in ogni caso”, (anche nell’ipotesi delle costruzioni in sopraelevazione) essere realizzate nel rispetto delle precedenti disposizioni generali sulle distanze”.

La Cassazione si è, quindi, preoccupata di porre in risalto che “la nuova costruzione in sopraelevazione realizzata dagli odierni ricorrenti, in quanto costituente un corpo chiuso mediante tamponatura, viola le esaminate disposizioni poste dalla norma regolamentare de qua, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, non soltanto per quella parte della struttura che sporge oltre il limite della preesistente parete dell’edificio sottostante, ma anche per l’intera parte della struttura che si trova ad una distanza dal confine inferiore ai 5 metri, inderogabilmente prevista dalla norma stessa quale distanza minima per le pareti perimetrali.” .

Appare evidente che tale seconda pronuncia non può ritenersi contraddittoria rispetto a quella illustrata in precedenza, ma riguarda semplicemente un caso assai diverso da quello illustrato dal lettore.

Il consiglio per quest’ultimo è quello di informarsi presso il Comune dove deve essere realizzata l’opera se ci sono norme regolamentari che stabiliscono particolari disposizioni in materia e solo dopo verificare se ci sono le condizioni per costruire quello che ha in animo di fare. Pertanto, anche nella denegata ipotesi che il vicino volesse promuovere un’azione giudiziaria diretta ad ostacolare la costruzione, egli dovrebbe provare una serie di circostanze che, allo stato, non sono individuabili.

 

[1] Art. 873 cod. civ.

[2] Cass. sent .n. 7183/12 del 10.05.12.

[3] Cass. sent. n. 400 del 12.01.2005.

[4] Art. 19, punto 8 Regol. Edil. Comune Varedo.

[5] Cass. sent .n. 5236/99.

[6] Integrativa in sede locale della previsione dell’art. 873 c.c. ed attuativa delle disposizioni di cui al D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 che, in applicazione dell’art. 41 quinquies, ultimo comma, della legge urbanistica 17.8.42 n. 1150, come modificato dall’art. 17 della cd. legge ponte 6.8.67 n. 765

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sabato 30 gennaio 2016

Se anche dopo lo sfratto l’inquilino non ne vuol lasciare casa

 

Affitto: la procedura di sfratto per finita locazione e le misure di coercizione nei confronti dell’inquilino che non vuole lasciare l’appartamento.

Lo sfratto, benché regolato da una procedura piuttosto celere e snella, nei fatti può diventare particolarmente lungo, tanto da frustrare l’esigenza del locatore a rimettere subito l’immobile sul mercato e trovare così nuovi inquilini. Certo, se nonostante l’ordine del giudice l’inquilino non adempie spontaneamente, c’è sempre l’esecuzione forzata e l’intervento dell’ufficiale giudiziario che, in caso di resistenza, può anche farsi accompagnare dalla forza pubblica (i carabinieri, per esempio). Ma, intanto, il tempo passa e il proprietario dell’immobile perde potenziali clienti e canoni di affitto. Così, per cercare di rimediare al tempo perso e indennizzare tale danno, la legge prevede, in generale, per questa e qualsiasi altra situazione simile di mancato adempimento degli ordini del giudice, una misura particolarmente incisiva [1]: la condanna, contenuta già nella sentenza stessa, a pagare, oltre al risarcimento del danno vero e proprio (nel caso dell’affitto, i canoni arretrati con gli interessi), una ulteriore somma di denaro dovuta per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento del tribunale.

Si parla, a riguardo, di misure di coercizione indiretta (in gergo tecnico vengono comunemente dette “astreinte”) per via del fatto che dovrebbero costituire un’ulteriore spinta, nei confronti del debitore, a eseguire la prestazione volontariamente (nel caso di specie, la liberazione dell’appartamento), nella consapevolezza che più passa il tempo, più aumenta la somma da corrispondere al creditore.

Ebbene, secondo una recente e interessante sentenza del Tribunale di Busto Arsizio [2], tali misure di coercizione indiretta possono essere applicate anche al processo di sfratto per finita locazione. Nel caso di specie, il magistrato ha condannato l’inquilino a pagare, oltre alle spese di causa, anche un’ulteriore somma di 50 euro al giorno in caso di mancato o ritardato rilascio dell’immobile.

Il provvedimento del giudice è già titolo esecutivo e, pertanto, consente al creditore di procedere direttamente con l’esecuzione forzata e l’eventuale pignoramento, previa notifica dell’atto di precetto. Cosa significa in pratica? Che se il debitore ha beni pignorabili (conto corrente, stipendio, pensione, ecc.), l’ex padrone di casa potrà aggredirli per recuperare non solo i canoni arretrati, ma anche le “multe” per il ritardo nella riconsegna dell’immobile.

È chiaro che la misura potrebbe non sortire alcun effetto deterrente nel caso di soggetto nullatenente. A patto, però, che tale persona viva, per il resto della vita, senza beni intestati. Questo perché il nostro codice civile stabilisce che ogni persona è responsabile, per i debiti da questi contratti, con tutti i suoi beni presenti e futuri. In buona sostanza, il soggetto con la pendenza dovrebbe vivere il resto della vita senza acquisire più alcun tipo di bene, non solo con l’acquisto, ma anche a titolo di donazione o eredità. Trattandosi, infatti, di crediti derivanti da un provvedimento del giudice (l’ordinanza di convalida di sfratto) la prescrizione è di 10 anni, termine che, ovviamente, può essere interrotto in qualsiasi momento tramite una lettera di diffida o un atto di precetto.

Servitù di passaggio e problematiche connesse a riconoscimento ed esercizio del diritto

 

Nozione di servitù e servitù di passaggio

Servitù di passaggioL'art. 1027 c.c. descrive la servitù come il peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.
Si è soliti dire, perché così è, che la servitù è di un diritto reale di godimento su cosa altrui in quanto il proprietario del fondo dominante la esercita sul fondo di una persona diversa, per l'appunto il fondo servente.
Dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che l'altruità del fondo è requisito indispensabile per il corretto esercizio della servitù visto e considerato che tra due fondi appartenenti al medesimo proprietario l'assoggettamento di uno all'altro resta un atto indifferente ai fini della configurabilità della servitù.
Il codice civile disciplina alcuni tipi di servitù.
Tra tutti, probabilmente la più nota, è la servitù di passaggio.
Essa può costituirsi:
a) per volontà delle parti;
b) coattivamente;
c) per usucapione (es. utilizzando indisturbatamente un passaggio per almeno 20 anni, in senso ostativo all’usucapione in fine parleremo dei così detti atti di tolleranza);
d) per destinazione del padre di famiglia.
Oltre alle ipotesi tipizzate è possibile costituire una servitù tutte quelle volte in cui vi siano due fondi, non necessariamente confinanti tra loro, ed uno di questi (quello dominante) possa trarre una qualche utilità dall'altro detto servente).
Tale requisito, l'utilitas come viene chiamata in gergo, deve essere proprio del fondo.
Ciò vuol dire che il vantaggio che si deve trarre dall'esercizio della servitù deve essere strettamente connesso con il fondo dominante e non essere una mera comodità che il proprietario dello stesso vuole ottenere.
Per fare un esempio nel caso della servitù di passaggio l'utilità pur essendo, naturalmente, esercitata dal proprietario è inerente al fondo poiché è su questo che si riflette tale utilità, ossia la possibilità di raggiungerlo per utilizzarlo.
In altri casi, quando cioè l'utilità è direttamente connessa alla persona e non al fondo, si parlerà di servitù così detta irregolare.
L'esempio classico è quello del parcheggio la cui utilità non è connessa al fondo ma si sostanzia in una mera comodità per il proprietario.
Vista la varietà di servitù costituibili a ricorrenza dei requisiti summenzionati in dottrina si è detto che la servitù è un diritto reale tipico dal contenuto atipico (cfr. Minussi, Proprietà Possesso Diritti reali, ed. Simone 2009).

Servitù coattiva di passaggio

La coattività, come ci dice il vocabolario della lingua italiana, indica il carattere obbligatorio di un determinato comportamento.
Nell'ambito giuridico la coattività sta ad indicare la possibilità d'imporre ad una determinata persona l'obbligo di fare (o non fare) qualcosa.
Tra le varie applicazioni di questa nozione spicca la possibilità di costituire servitù che, per l'appunto, vengono poi definite coattive.
Siccome l'imposizione di una servitù si sostanzia nella limitazione della proprietà immobiliare (fondiaria come si dice in maniera più tecnica) a vantaggio di altre persone, la costituzione di una servitù coattiva deve soggiacere a ben precisi limiti e condizioni.
Nello specifico, guardando a una tipologia di servitù particolarmente nota, ossia la servitù coattiva di passaggio, per l'ottenimento della costituzione del diritto non si può guardare solamente alla situazione materiale del fondo ma è necessario altresì considerare di chi sia la proprietà dei fondi circostanti.
Servitù coattiva di passaggioCome ha specificato la Suprema Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 1051 c.c. l'interclusione assoluta o relativa che legittima la costituzione della servitù coattiva di passaggio ricorre quando il fondo, privo di accesso alla via pubblica, è circondato da fondi altrui, situazione, questa, che giustifica l'imposizione del peso in re aliena.
Relativizzata la nozione di fondo all'uso produttivo o civile cui esso è adibito dal proprietario, l'interclusione sussiste se ed in quanto l'unità immobiliare che si assume come fondo dominante sia circondata da terreno di proprietà aliena, di guisa che il passaggio non possa essere attuato se non col sacrificio del diritto altrui.
Diversamente, se tra il fondo del cui vantaggio si tratta e la via pubblica s'interpongono altri fondi appartenenti al medesimo titolare e dotati o dotabili di accesso proprio alla via pubblica senza eccessivo dispendio o disagio, nessun ostacolo giuridico o materiale impedisce il passaggio attraverso i fondi del medesimo proprietario.
In tal caso, pertanto, l'art. 1051 c.c. non può trovare applicazione alcuna, neppure con riguardo all'ampliamento della servitù di passaggio preesistente, che del pari presuppone la residua interclusione del fondo dominante (Cass. 23 maggio 2013, n. 12819).
Insomma se il fondo Alfa di Tizio è circondato da altri predi alcuni dei quali di sua stessa proprietà, Tizio non potrà chiedere il passaggio coattivo sul fondo di Caio.

Servitù coattiva di passaggio e fondo non intercluso

L'art. 1051 c.c. sembrerebbe limitare il diritto di costituzione della servitù coattiva di passaggio ai così detti fondi interclusi.
L'art. 1052 c.c. contiene un'eccezione.
Recita la norma, rubricata Passaggio coattivo a favore di fondo non intercluso:
Le disposizioni dell'articolo precedente si possono applicare anche se il proprietario del fondo ha un accesso alla via pubblica, ma questo è inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo e non può essere ampliato.
Il passaggio può essere concesso dall'autorità giudiziaria solo quando questa riconosce che la domanda risponde alle esigenze dell'agricoltura o della industria.
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha re-interpretato la norma allargandone il confine applicativo al di là delle così dette esigenze dell'agricoltura e dell'industria.
In una delle più recenti sentenze sull'argomento (una pronuncia del Tribunale di Teramo dell'aprile 2013) si legge:
Invero per quanto concerne la servitù coattiva, l'imposizione del passaggio a favore di un fondo, ancorché non intercluso del tutto, non postula, ai sensi dell'art. 1052 c.c., necessariamente la rispondenza della relativa domanda alle esigenze della agricoltura o dell'industria.
Se è vero infatti che tale requisito trascende generalmente gli interessi individuali, giustificando l'imposizione coattiva solo se sia rispondente all'interesse generale della produzione, da valutare con riguardo allo stato attuale dei fondi e alla loro concreta possibilità di un più ampio sfruttamento o di una migliore utilizzazione, tuttavia non poteva prescindere dall'esigenza abitativa prevalente, cui il fondo dei ricorrenti era adibito nel contesto sociale e tecnico attuale, nel quale non può farsi a meno dell'uso del mezzo meccanico, anche ai fini di esigenze di carattere sanitario, specie alla luce della innovazione introdotta alla disciplina di cui all'art. 1052 c.c., comma 2, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 1999 (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 7000 del 2001, n. 6590 del 11/11/1986).
Precisamente la Consulta ha affermato che l'art. 1052 c.c., comma 2, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il passaggio coattivo di cui al primo comma possa essere concesso dall'autorità giudiziaria quando questa riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità - con particolare riguardo alla legislazione relativa ai portatori di handicap - degli edifici destinati comunque ad uso abitativo, per violazione dell'art. 2 Cost., art. 3 Cost., comma 2, art. 32 Cost., e art. 42 Cost., comma 2.
Infatti, premesso che la concessione del passaggio coattivo è subordinata dalla norma denunciata non solo alla inadeguatezza dell'accesso alla via pubblica ed alla sua non ampliabilità, ma anche alla sussistenza di una ulteriore condizione, rappresentata dalla circostanza che la domanda risponda alle esigenze della agricoltura e dell'industria; e considerato che, con tale disposizione, il legislatore, per il caso di fondo non intercluso, ha inteso altresì ricollegare la costituzione della servitù coattiva di passaggio alla sussistenza in concreto di una interesse generale, all'epoca identificato nelle esigenze dell'agricoltura o dell'industria, al quale rimane estraneo ogni rilievo relativo alle esigenze abitative, pure se riferibili a quegli interessi fondamentali della persona la cui tutela è indefettibile, tuttavia l'omessa previsione della esigenza di accessibilità della casa di abitazione ledeva il principio personalista che ispira la Carta costituzionale e che pone come fine ultimo dell'organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana.
Inoltre va osservato che la norma denunciata impedendo od ostacolando la socializzazione anche degli eventuali handicappati, comportava anche una lesione del fondamentale diritto di costoro alla salute psichica, la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica.
Né, d'altronde, la previsione della servitù in parola poteva trovare ostacolo nella garanzia accordata al diritto di proprietà dall'art. 42 Cost., poiché il peso che in tal modo si veniva ad imporre sul fondo altrui poteva senz'altro annoverarsi tra quei limiti della proprietà privata determinati dalla legge, ai sensi della citata norma costituzionale, allo scopo di assicurarne la funzione sociale (V. pure Corte Cost. Sent. n. 167 del 10.5.1999).
In altre parole il diritto vivente si è oggi assestato sul principio per cui non ha senso limitare la costituzione di servitù ai sensi dell'art. 1052 c.c. al solo soddisfacimento delle esigenze dell'industria e dell'agricoltura atteso che anche le esigenze di sviluppo della personalità umana, tra cui quella che una casa di abitazione sia raggiungibile non solo a piedi ma anche con mezzi meccanici, devono essere poste come esigenze superindividuali, essendo ricollegate allo sviluppo sociale e tecnologico della collettività, come tale suscettibili di essere vagliate ai fini dell'art. 1052 c.c. (Trib. Teramo 3 aprile 2013 n. 293).
In buona sostanza: la costituzione di un servitù di passaggio coattivo a favore di un fondo non intercluso ma comunque non agevolmente raggiungibile – dove per non agevolezza si può intendere anche il semplice accesso pedonale – può essere concessa molti più facilmente rispetto al passato; parola di giurisprudenza.

Servitù di passaggio e chiusura del fondo

Chiusura del fondoChi è proprietario di un fondo può decidere di recintarlo senza alcun patema anche se su di esso grava una servitù di passaggio?
Il caso è molto frequente come dimostrano anche le pronunce di Cassazione che lo riguardano.
Entriamo nel merito.
Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo. Questo lo stringato contenuto dell'art. 841 c.c.
Un potere illimitato nel tempo ma non nella sostanza; insomma il proprietario anche dopo venti o trent'anni dall'acquisto può recintare il suo fondo purché non compia atti emulativi.
La norma di riferimento è l'art. 833 c.c. a mente del quale: il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.
Che cos'è un atto emulativo?
Secondo la Cassazione, chiamata ad interpretare il significato di questa disposizione, la sussistenza di un atto emulativo presuppone il concorso di due elementi, ovvero che sia privo di utilità per chi lo compie e che abbia il solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri (vedi tra le più recenti Cass. 3.12.1997 n. 12258; Cass. 9.10.1998 n. 9998; Cass. 3.4.1999 n. 3275) (Cass. 11 aprile 2001, n. 5421).
In buona sostanza difficilmente recintare una proprietà può essere considerato atto emulativo.
La recinzione, però, non può ostacolare l'esercizio di altri diritti, quali ad esempio quelli stabiliti per contratto o costituiti per sentenza, per il passare del tempo o per lo stato dei luoghi.
In questo contesto, scorrendo le sentenze di Cassazione in materia, si legge che secondo il costante indirizzo di questa Corte in materia di servitù di passaggio, nel caso in cui il proprietario del fondo servente intenda esercitare la facoltà, prevista dall'art. 841 c.c., di chiudere il fondo per preservarlo dall'ingerenza di terzi, spetta al giudice di merito stabilire in concreto quali misure risultino più idonee a contemperare i due diritti, avendo riguardo al contenuto specifico della servitù, alle precedenti modalità d'esercizio e alla configurazione dei luoghi (v. Cass. nn. 15971/01, 9631/99, 1212/99, 5808/98, 2267/97 e 8536/95) (Cass. 23 settembre 2013 n. 21744).
Insomma stabilire se un cancello impedisca o meno il pacifico esercizio del passaggio spetta al giudice chiamato a decidere sulla controversia.

Servitù di passaggio e atti di tolleranza

Il passaggio prolungato nel tempo sul fondo di un vicino può dare luogo all’acquisto di una servitù di passaggio per usucapione?
Se il passaggio non è stato clandestino ed era pacifico, si, dopo vent’anni di esercizio, è possibile ottenere l’accertamento della costituzione di una servitù di passaggio per usucapione.
Possibile, ma non automatico. Motivo? Il proprietario del fondo detto servente (quello su cui si passa) potrebbe eccepire di aver tollerato quel passaggio. I così detti atti di tolleranza impediscono l’usucapione.
Che cosa sono esattamente gli atti di tolleranza?
Gli atti di tolleranza, che secondo l'art. 1144 c.c., non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità - come nella specie - (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone.
Pertanto nell'indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza, e quindi sia inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 04631 del 1990, 08194 del 18/06/2001) (Cass. 20 febbraio 2008 n. 4327).

Abusi edilizi: ecco quando è valida la comprevendita

 

Abusi edilizi e compravendita immobiliare

Abusi ediliziaCon la sentenza n. 24852/2015 del 9 dicembre scorso, la Suprema Corte di Cassazione ha introdotto un principio di diritto molto importante in riferimento agli abusi edilizi e successiva compravendita immobiliare. In particolare nella pronuncia in oggetto, la Corte ha stabilito che quando un immobile viene costruito sulla base di una regolare concessione edilizia e vengono eseguite modifiche interne senza l’autorizzazione ma senza comunque mutarne la volumetria, il successivo contratto di vendita definitivo dell’immobile non si considera nullo.
La pronuncia si erge a precedente molto importante da prendere a riferimento nei contenziosi che riguardano gli abusi edilizi. Ma entriamo nei dettagli e vediamo di cosa si tratta.

La sentenza n. 24852/2015 della Cassazione

Il caso da cui deriva la sentenza della Seconda sezione della Cassazione riguarda una richiesta di nullità di un preliminare di vendita di un immobile.
Il promissario acquirente di un immobile, dopo aver stipulato il preliminare di vendita, non aveva voluto addivenire alla conclusione del rogito finale in quanto aveva riscontrato la presenza sull’immobile di alcune lievi difformità (nel caso di specie si trattava di una scala esterna e altre modifiche interne).
Tuttavia, questi lievi cambiamenti non comportavano modifiche volumetriche e successivamente, prima comunque dell’emanazione della sentenza costitutiva dell’effetto traslativo dell’immobile, erano state regolarizzate.

Lievi difformità dell’immobile: il Testo Unico dell’Edilizia

Abusivismo ediliziaMa cosa significa lievi difformità sull’immobile?
Per dare una risposta esaustiva si deve prendere a riferimento il Testo Unico dell’edilizia (DPR n. 380/2001) che definisce gli interventi di totale difformità dal permesso di costruire come quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
Per completezza di informazioni si ricorda che in base all’articolo 32 del DPR n. 383 del 2001 le Regioni possono definire autonomamente le variazioni essenziali al progetto approvato.
L’essenzialità in particolare ricorre quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
- mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal DM 2 aprile 1968
-  aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare in relazione al progetto approvato
- modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza
- mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito
- violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Detto ciò si sottolinea che la nozione chiara e netta di interventi di parziale difformità non è ben specificata. Solo l’articolo 34 del TU dell’Edilizia prevede che gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio.
Il successivo comma 3 dello stesso art. 34 specifica che non si sconfina nella parziale difformità in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali.

Abusi edilizi: ecco quando è valido il preliminare di vendita

Preliminare venditaPrendendo a riferimento queste norme, gli Ermellini nel caso in oggetto hanno respinto la richiesta di nullità del preliminare di vendita da parte del promissario acquirente e hanno giudicato come valido il contratto preliminare.
In particolare, la Suprema Corte ha precisato che se le opere realizzate senza il necessario titolo abilitativo non superano il limite indicato all’articolo 34 del TU dell’Edilizia, ossia il 2% di scostamento per altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta, allora il preliminare di vendita è valido e si potrà quindi procedere alla stipula in via definitiva del contratto di compravendita.
Altrimenti se questi limiti sono superati il preliminare si considera nullo e per completare la compravendita è necessario ottenere il condono degli abusi commessi.
A ben vedere nella sentenza in oggetto i giudici affermano che non è applicabile la sanzione della nullità del preliminare quando:
- l’immobile è costruito sulla base di regolare concessione edilizia
- sono state eseguite alcune modifiche interne non autorizzate che non ne hanno mutato per nulla la volumetria ( il riferimento è al limite del 2%).
Alla stessa stregua per la Corte di Cassazione, quando successivamente al contratto preliminare interviene la concessione in sanatoria di eventuali abusi edilizi, è esclusa la nullità del successivo contatto definitivo di vendita.
Al contrario i giudici hanno sancito che la nullità del preliminare e di conseguenza non si potrà arrivare alla compravendita opera nel caso di:
- atti che non contengono gli estremi del permesso di costruire
- atti che non contengono gli estremi della domanda di sanatoria edilizia.
In tal modo viene tutelato l’acquirente che deve così essere posto a conoscenza delle condizioni del bene acquistato.

Sottotetti, per renderli abitabili è necessario il permesso del Comune

 

Cassazione: in mancanza di autorizzazioni o in presenza di variazioni essenziali al progetto approvato si commette un abuso edilizio

 

28/01/2016 – Cambiare la destinazione d’uso di un sottotetto, rendendolo abitabile, implica un aumento della superficie utile e della volumetria. Per effettuare questo tipo di intervento è necessario attenersi strettamente al permesso del Comune altrimenti si rischia di essere accusati per aver commesso un abuso edilizio.
Il chiarimento è arrivato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 49583/2015.
Nel caso preso in esame, il Comune aveva accertato che il cambio di destinazione d’uso del sottotetto aveva determinato un aumento della superficie utile lorda e della volumetria maggiore del 5% rispetto a quella autorizzata con il permesso di costruire.
Il responsabile, punito con una multa, aveva presentato ricorso perché a suo avviso, durante lo svolgimento del giudizio, era stata approvata la legge Sblocca Italia (Legge 133/2014), in base alla quale sono consentiti i mutamenti di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale.
Anche se, dopo i lavori, l’immobile era rimasto in categoria residenziale, i giudici hanno sottolineato che dovevano essere prese in considerazione le violazioni al Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) e al Regolamento edilizio comunale.
Ricordiamo che, in base al Testo unico dell’edilizia, sono ammesse variazioni entro il 2% delle misure progettuali. Quelle rilevate dal Comune erano invece del 5%.
Ma non solo, perché oltre all’accorpamento del sottotetto non accessibile alle altre camere, con un conseguente aumento della volumetria e della superficie utile, era stata incrementata l’altezza del colmo della falda in modo da rendere più alti i locali.
I giudici hanno stabilito quindi che si era in presenza di variazioni essenziali al permesso di costruire. Per questo hanno bocciato il ricorso e condannato il responsabile al pagamento della multa.

Mutui: boom nel terzo trimestre 2015 con un + 87,4%

 

boom-mutui-2015
Negli italiani torna la fiducia nell’acquisto delle case. E’ questo quanto emerge dai dati riportati per il terzo semestre 2015 dal Bollettino Statistico IV – 2015 pubblicato dalla Banca d’Italia nel mese di gennaio. L’aumento delle erogazione si è attestato ad un +87,4% riuscendo a produrre così un controvalore di + 5.022,3 milioni di euro.

Il Sud Italia si attesa in pole per i mutui erogati

Il meridione vince la classifica dei mutui erogati nel 2015, grazie ad una crescita dell’11,3%, rispetto al terzo trimestre 2014, superando 1.600 milioni di euro. La situazione però è ugualmente buona anche nel Centro, che riesce a far segnare un aumento dei volumi del + 96%, arrivando così a 2.700 milioni di euro.

Per quanto riguarda invece il Nord-Occidentale questo si conferma ancora una volta per i volumi erogati, con 3.5 miliardi di euro e  con un aumento dell’82,1% rispetto sempre al terzo trimestre 2014. Mentre le isole della Sardegna e della Sicilia nel complesso hanno erogato 650 milioni, arrivando così al 78.7% in più rispetto all’anno precedente. Infine il Nord-Est si afferma con un’elargizione di 2,3 miliardi di euro, che corrispondono ad un 75% in più.

Cresce la domanda delle famiglie italiane

Nel 2015 le famiglie italiane hanno ricevuto un finanziamento per l’acquisto delle abitazioni per 10.768, 5 milioni di euro nel terzo trimestre 2015, superando in due anni i 10 miliardi di euro. Tanto che nel 2015  si è evidenziato un aumento del 55% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, grazie anche ai finanziamenti alle famiglie e alle imprese, offerte in base ai mutui scelti.

Da ottobre 2014 a settembre 2015 sono stati rogati finanziamenti per l’acquisto delle abitazioni per 35-158,2 milioni di euro, facendo così segnare un aumento dei volumi pari a +54,7%, per un controvalore di +12.431,7 milioni di euro.

Abruzzo e Crotone raddoppiano i prestiti richiesti

Andando a sviluppare un’analisi più approfondita di richieste di prestiti vediamo che l’Abruzzo ha fatto segnare uno strabiliante +142.4%, seguita da Basilicata, Umbria, Calabria e Campania. Al Nord Italia però si eroga mediamente di più, con la Lombardia che si conferma al primo posto con 2.323,6 milioni di euro, seguita da Lazio (1.517,6 milioni di euro), Emilia Romagna (898 milioni di euro)  e Veneto (891,4 milioni di euro.

Crotone è la provincia che primeggia, con un +234.5%, seguita da Imperia, con un aumento dei volumi del 194,3%, Chieti e Matera (+164,9%). Le maggiori province restano sempre Roma e Milano, Torino e Napoli, con un + 116% rispetto al 2014.

Tipologie di finanziamenti erogati

L’Abi ha dichiarato che i “mutui a tasso variabile rappresentano, nell’intero 2015, il 42,8% delle nuove erogazioni complessive; nei mesi più recenti sono in forte incremento i mutui a tasso fisso che hanno raggiunto a dicembre 2015 i 2/3 delle nuove erogazioni, erano il 25% dodici mesi prima”.

Inoltre la forte ripresa delle nuove erogazioni si sta riflettendo anche sul “totale dei mutui in essere delle famiglie”. Sulla base degli ultimi dati ufficiali disponibili, relativi a fine novembre 2015, l’ammontare complessivo dei mutui ha registrato un variazione positiva dello 0,5% nei confronti di fine novembre 2014, confermando, pertanto, la ripresa del mercato in questione.

Riassumendo così la situazione fino ad ora esposta, Abi ha dichiarato che i dati relativi al periodo gennaio-dicembre del 2015 evidenziano la forte ripresa del mercato dei finanziamenti alle famiglie per l’acquisto delle abitazioni. Nell’intero 2015 l’ammontare delle erogazioni di nuovi mutui è stato pari a 49,826 miliardi di euro rispetto ai 25,283 miliardi dello stesso periodo del 2014. L’incremento su base annua è, quindi, del 97,1%. Mentre l’incidenza delle surroghe sul totale dei nuovi finanziamenti è pari, nell’intero 2015, a circa il 31%.

In Italia 2 milioni di case vecchie che gonfiano la bolletta energetica

 

 


Confartigianato ha portato alla luce uno spaccato del settore immobiliare italiano che vede oltre 2 milioni di case malmesse e vecchie, che oltre a sviluppare un evidente pericolo per la sicurezza dei cittadini aumentano anche la bolletta energetica. La situazione peggiore si verifica nel Mezzogiorno, ma vediamo nello specifico quali sono le regioni in Italia più colpite e quali sono i problemi che ne conseguono. Oltre le possibili soluzioni offerte dagli sgravi fiscali, attraverso la Legge di Stabilità 2016.

In Sicilia il 26,8% delle abitazioni è in cattivo stato

Purtroppo la classifica della regione con più case in stato mediocre-pessimo viene vinta dalla Sicilia, con il 26,8% del totale delle case malmesse. A seguire la Calabria con il 26,2% e la Basilicata con il 22,3%. Le cose migliorano decisamente spostandoci verso il Nord, soprattutto in Alto Adige e in Umbria, dove le abitazioni in pessimo stato si riducono al 10,7% del totale, seguite dalla Toscana, dove la percentuale si alza leggermente all’11,5%.

Per quanto riguarda invece le province il record negativo spetta a Vibo Valentina con il 31,4%, seguita da Reggio Calabria (31,13%) e Catanzaro (25,8%). Anche in questo caso vediamo però anche l’altra faccia della medaglia, in quelle province in cui la situazione è nettamente a favore delle nuove case, in un complesso di abitazioni vecchie che si attestano solo all’8,2% per Prato, Bolzano (8,5%) e Siena (8,5%).

Bonus fiscali per ristrutturazioni e risparmio energetico

La maggior parte degli edifici italiani sono di tipo residenziale e tre quarti di questi sono stati costruiti prima del 1981, andando quindi a compiere oltre 35 anni di età. Solo il 25,9% delle abitazioni è stato invece fabbricato più recentemente.

Al fine quindi di trovare una soluzione a questo decadimento abitativo si cercherà di intervenire attraverso i bonus fiscali  per le ristrutturazioni e il risparmio energetico. “E’ indispensabile – spiega Arnaldo Redaelli, presidente di Confartigianato Edilizia – rendere stabili e permanenti, nella misura indicata nella legge di Stabilità 2016, gli incentivi fiscali che consentono di raggiungere più obiettivi: riqualificazione del patrimonio immobiliare, risparmio ed efficientamento energetico e difesa dell’ambiente, rilancio delle imprese delle costruzioni, emersione di attività irregolari”.

Legge di Stabilità 2016: sgravi fiscali del 50% e 65%

Con la proroga delle detrazioni fiscali, chi apporta ristrutturazioni, acquista mobili, grandi elettrodomestici e migliora l’efficienza energetica, può usufruire di incentivi fiscali che variano dal 50% (ristrutturazione edilizia) al 65% (efficientamento energetico).

Il bonus del 65% ad oggi potrà essere anche utilizzato dagli enti di gestione delle case di edilizia residenziale pubblica, mentre gli ex Iacp (Istituto Autonomo Case Popolari) potranno usufruire di un fondo di 170 milioni di euro per le manutenzioni. Il tetto massimo di spesa consentito dalla Legge di Stabilità 2016 è di 96.000 euro e il bonus viene ripartito in dieci quote annuali, sia per le detrazioni al 50% che al 65%.

Per quanto riguarda invece il bonus mobili, la spesa massima è di 10.000 euro, con uno sgravio Irpef del 50%. Dal 2016 sono compresi nel bonus anche: letti, armadi, librerie, tavoli, sedie, comodini divani, poltrone, credenze, materassi e apparecchi per l’illuminazione. Oltre che elettrodomestici nuovi di classe energetica non inferiore alla A+ (A per i forni), come rilevabile dall’etichetta energetica. Rientrano poi anche: frigoriferi, congelatori, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi di cottura, stufe elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento, radiatori elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per il condizionamento. Mentre sono esclusi: porte, pavimenti, tende e complementi d’arredo.

Infine per gli under 35 la detrazione è del 50%, sulle spese per l’acquisto di mobili per l’arredamento di una casa da adibire ad abitazione principale, e il tetto massimo di spesa deve essere contenuto in 16.000 euro.