Abbiamo più volte affrontato la questione rispondendo qua e là ai commenti dei nostri lettori che si sono trovati spesso, concretamente, in questa situazione. Molti uffici, infatti, presentano una struttura già adatta all'uso come abitazione, senza necessità di alcuna modifica strutturale. Così come ci sono abitazioni che potrebbero essere usate da professionisti per svolgere l'attività di medico o di ingegnere. Quindi se la pratica rende tali immobili intercambiabili, difatti, burocraticamente, è possibile utilizzare categorie catastali commerciali per scopi abitativi e/o viceversa?
Per rispondere a questo complesso "dilemma", abbiamo sviscerato l'argomento a più riprese per arrivare alla valutazione più corretta.
Di seguito il risultato: al di là della considerazione sulla praticità e la contingenza delle situazione, possiamo confermare che non si può (potrebbe) locare un'abitazione uso ufficio e che, nonostante si tratti di pratica diffusa, in realtà tale pratica non può essere considerata regolare.
In riferimento alla questione in oggetto, e cioè se si possa affittare per uso ufficio un immobile con destinazione catastale "abitativa" e, in generale, se sia ammissibile un contratto di locazione stipulato su un immobile per un uso diverso da quello proprio della categoria catastale di riferimento, occorre in primo luogo far presente che non è applicabile l'art. 19, comma 14, del DL 31 maggio 2010, n. 78 (che prevede l'allineamento tra destinazione d'uso e categoria catastale, a pena di nullità del contratto) per i seguenti motivi:
- la norma in oggetto fa riferimento ad "atti traslativi", laddove invece la locazione è un contratto privo di effetti traslativi;
- la norma in oggetto fa riferimento ai soli atti pubblici e scritture private autenticate tra vivi, non anche alle scritture private non autenticate, quali sono i contratti di locazione.
Di conseguenza non potrà applicarsi la sanzione della nullità, espressamente prevista dal comma 14.
Poiché non si può invocare il comma 14, ne discende che non si potrà neanche far riferimento alla circolare n. 2/2010 dell'Agenzia del Territorio, in quanto quest'ultima ha fornito chiarimenti interpretativi proprio in merito al comma 14, e non anche ad altre disposizioni.
Ciò nonostante, il mancato allineamento non andrà esente da conseguenze.
Infatti, è sicuramente applicabile il successivo comma 15 dell'art. 19, secondo cui "la richiesta di registrazione di contratti, scritti o verbali, di locazione o affitto di beni immobili esistenti sul territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni o proroghe anche tacite, deve contenere anche l'indicazione dei dati catastali degli immobili. La mancata o errata indicazione dei dati catastali è considerato fatto rilevante ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro ed è punita con la sanzione prevista dall'articolo 69 del decreto del presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131".
Si potrebbe obiettare che per "errata indicazione dei dati catastali" il Legislatore abbia inteso far riferimento al solo errore di trascrizione dei dati corretti nel contratto (cd. errore materiale), e non al mancato allineamento dei dati catastali all'uso contrattualmente pattuito; ma sarebbe altrettanto irragionevole e illogico sostenere che il Legislatore non abbia previsto alcuna sanzione nel caso, grave, in cui il proprietario in mala fede abbia utilizzato una categoria catastale per un uso diverso da quello consentito, sottraendosi così anche ai suoi obblighi fiscali (non a caso, diversi tributi locali sono calcolati in base alla diversa destinazione d'uso, ad es. IMU, TARI ecc.).
Ciò significa che:
• il proprietario rischia di incorrere nella sanzione di cui all'articolo 69 del DPR 131/1986, ovvero la sanzione amministrativa dal 120% al 240% dell'importo dell'imposta di registro dovuta in caso di mancata o errata/inesatta indicazione dei dati catastali nel contratto di locazione.
L'efficacia della norma in questione decorre dal 1° luglio 2010: ciò che occorre considerare non è la data di stipula del contratto ma è la data in cui esso viene presentato per la registrazione. La nuova norma concerne, inoltre, non solo la stipula di nuovi contratti, ma anche i contratti che hanno a oggetto la cessione, la risoluzione e la proroga di contratti di locazione e di affitto.
Tra l'altro, "per motivi di omogeneità e di razionalizzazione del sistema", l'Agenzia delle Entrate ha anche colto l'occasione per disporre in capo al contribuente adempimenti ulteriori rispetto a quelli imposti dal DL 78/2010: vale a dire che l'obbligo di indicazione dei dati di identificazione catastale degli immobili è stato disposto, oltre che per i contratti di locazione e di affitto, anche per i contratti di comodato.
A parte i profili sanzionatori, occorre anche segnalare che, qualora si conceda in affitto un immobile senza la previa segnalazione all'inquilino della categoria catastale, il proprietario potrebbe esporsi a contestazioni e addirittura alla risoluzione del contratto qualora l'inquilino dimostri che l'immobile, in base alla sua categoria catastale, risulti inidoneo all'uso pattuito.
In conclusione e in sintesi:
1. la destinazione a uso ufficio non è compatibile con un immobile abitativo;
2. ciò comporta che debba essere effettuata una variazione catastale;
3. qualora si stipuli un contratto prima dell'effettuazione della variazione (che comunque andrebbe effettuata quanto prima), è opportuno inserire una clausola in cui l'inquilino accetti la situazione di fatto esistente (in modo da evitare la risoluzione del contratto); impegnandosi in ogni caso a procedere quanto prima alla richiesta di variazione catastale;
4. qualora non si proceda in questa direzione, il Comune potrebbe, semplicemente incrociando il dato del contratto uso ufficio registrato con la categoria catastale abitativa (o ricevendo una segnalazione in tal senso da parte dell'Agenzia delle Entrate, ora accorpata con l'Agenzia del Territorio), rilevare un pagamento della TARI in difetto e in ogni caso richiedere la variazione catastale;
5. ugualmente, in caso di contestazione dell'omissione/errore, ci si esporrebbe ad una sanzione amministrativa che va dal 120% al 240% dell'importo dell'imposta di registro dovuta.