lunedì 25 giugno 2018

Sospensione mutuo 2018, i requisiti necessari



Le famiglie in difficoltà possono sospendere per un periodo di tempo fino a 18 mesi il versamento della quota capitale del proprio finanziamento, continuando però a versare la quota relativa agli interessi. Vediamo i soggetti coinvolti.

Il Fondo di solidarietà dei mutui per l’acquisto della prima casa consente ai mutuatari di richiedere alla banca che ha erogato il mutuo per l’acquisto dell’abitazione principale la sospensione del pagamento dell’intera rata fino a un massimo di due volte, per complessivi 18 mesi, al verificarsi dei seguenti eventi occorsi nei 3 anni precedenti alla presentazione della richiesta di sospensione:

  • cessazione del rapporto di lavoro subordinato, ad eccezione delle ipotesi di risoluzione consensuale, di risoluzione per limiti di età con diritto a pensione di vecchiaia o di anzianità, di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, di dimissioni del lavoratore non per giusta causa, con attualità dello stato di disoccupazione;

  • cessazione dei rapporti di lavoro di cui all'art. 409, numero 3), del codice di procedura civile, ad eccezione delle ipotesi di risoluzione consensuale, di recesso datoriale per giusta causa, di recesso del lavoratore non per giusta causa, con attualità dello stato di disoccupazione;

  • morte o riconoscimento di handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero di invalidità civile non inferiore all’80 per cento.

I principali requisiti per l’accesso sono, tra gli altri, un reddito Isee non superiore a 30.000 euro e l’importo di mutuo non superiore a 250.000 euro per l’acquisto di un’immobile non di lusso adibito ad abitazione principale.

Il 21 novembre 2017 L’Abi e 15 associazioni dei consumatori, nell’ottica di dare continuità alle misure di sostegno alle famiglie in difficoltà nel pagamento delle rate dei finanziamenti, hanno convenuto di prorogare l’accordo per la sospensione della sola quota di capitale del credito alle famiglie siglato il 31 marzo 2015.

In particolare, entro il 31 luglio 2018 possono richiedere la sospensione per 12 mesi del pagamento della quota capitale dei finanziamenti al consumo di durata superiore a 24 mesi, i consumatori che si trovino in difficoltà al verificarsi dei seguenti eventi occorsi nei 2 anni precedenti alla presentazione della richiesta di sospensione:

  • perdita del posto di lavoro a tempo determinato o indeterminato o dei rapporti lavorativi di cui all’art. 409 del cpc;

  • morte;

  • handicap grave o condizione di non autosufficienza;

  • sospensione o riduzione dell’orario di lavoro per un periodo di almeno 30 giorni anche in attesa dell’emanazione di provvedimenti di autorizzazione dei trattamenti di sostegno del reddito (ad es. Cig, Cigs, i cosiddetti ammortizzatori sociali in deroga etc.).

La sospensione non può essere richiesta invece per i mutui che abbiano almeno una delle seguenti caratteristiche:

  • ritardo nei pagamenti superiore a novanta giorni consecutivi al momento della presentazione della domanda da parte del mutuatario, ovvero per i quali sia intervenuta la decadenza dal beneficio del termine o la risoluzione del contratto stesso, anche tramite notifica dell'atto di precetto, o sia stata avviata da terzi una procedura esecutiva sull'immobile ipotecato;

  • fruizione di agevolazioni pubbliche;

  • un’assicurazione a copertura del rischio che si verifichino gli eventi di cui sopra, purché tale assicurazione garantisca il rimborso almeno degli importi delle rate oggetto della sospensione e sia efficace nel periodo di sospensione stesso.

Possono richiedere la sospensione del pagamento della quota capitale anche i mutuatari titolari dei mutui garantiti da ipoteche su immobili adibiti ad abitazione principale, nei soli casi di cui alla predetta lettera d).

tassi mutui:Abi, nuovo minimo all’1,83%


A maggio minimo storico per il tasso medio sulle nuove operazioni per l’acquisto di abitazioni: 1,83% (1,84% ad aprile 2018, 5,72% a fine 2007). E sul totale delle nuove erogazioni di mutui circa i due terzi sono mutui a tasso fisso. A dirlo il rapporto mensile dell’Abi (Associazione bancaria italiana).

Secondo quanto rilevato dall’Abi, dunque, a maggio sono scesi ancora i minimi storici per i tassi applicati dalle banche italiane a chi chiede denaro per acquistare un immobile. Il rapporto mensile Abi ha poi evidenziato che, sempre nel mese di maggio, i tassi di interesse applicati ai prestiti alla clientela si sono collocati sui minimi storici: il tasso medio sul totale dei prestiti è pari al 2,64%, minimo storico (2,65% il mese precedente e 6,18% prima della crisi, a fine 2007).

Ancora in calo le sofferenze nette bancarie. Ad aprile, secondo i dati dell’Abi, sono calate a 50,9 miliardi di euro, il valore più basso da aprile 2012. Rispetto al mese precedente il ribasso è stato di 1,6 miliardi, mentre è di quasi 38 miliardi rispetto al livello massimo raggiunto a novembre 2015 (88,8 miliardi) e di 26,5 miliardi su aprile 2017.

Il rapporto ha poi sottolineato che, dai dati al 31 maggio, i prestiti a famiglie e imprese sono risultati in crescita su base annua del 2,3%, proseguendo la positiva dinamica complessiva del totale dei prestiti in essere.

Sulla base degli ultimi dati ufficiali, relativi ad aprile 2018, è stata confermata la crescita del mercato dei mutui. L’ammontare totale dei mutui in essere delle famiglie ha registrato una variazione positiva di +2,6% rispetto ad aprile 2017 (quando già si manifestavano segnali di miglioramento).

domenica 17 giugno 2018

Bonus prima casa: con la separazione si può cedere l’immobile?


Bonus prima casa: con la separazione si può cedere l’immobile?


Se la cessione dell’immobile all’ex coniuge avviene prima di cinque anni ma nell’ambito di un procedimento di separazione consensuale, si perde il beneficio fiscale e si è costretti a pagare al fisco le sanzioni?

Ti stai separando. Con tua moglie avete preferito la via “consensuale”: così avete trovato un accordo sulla divisione dei vostri beni, accordo che ora dovrà essere ratificato dal tribunale perché possa avere valore. Tra i patti è previsto il tuo impegno a cederle la casa ove, fino ad oggi, avete vissuto. In cambio lei rinuncerà a buona parte dell’assegno di mantenimento. Senonché l’immobile era stato, a suo tempo, acquistato con le agevolazioni fiscali previste per la “prima casa” e sai bene che, per legge, non potresti venderlo o donarlo prima di cinque anni, salvo versare all’erario la differenza di imposta e le sanzioni. Conseguenza che vorresti scongiurare. Così ti chiedi se con la separazione si può cedere l’immobile acquistato con il bonus prima casa. È ciò che ti spiegheremo in questo articolo alla luce di un importantissimo chiarimento fornito proprio in questi giorni dall’Agenzia delle Entrate.

Indice

Bonus prima casa: condizioni

L’agevolazione fiscale sull’acquisto della prima casa (meglio nota come “bonus prima casa”) è sicuramente il sostegno più sostanzioso che lo Stato garantisce a chi vuol comprare un immobile. In tali casi, infatti, è possibile usufruire dell’Iva agevolata al 4% (anziché al 10%) oppure, per le vendite da privati, l’imposta di registro al 2% (anziché al 9%).

Condizioni essenziali per usufruire del bonus prima casa sono:

  • non essere proprietari di altri immobili all’interno del medesimo Comune ove si trova la casa da acquistare;
  • non essere proprietari di altri immobili in Italia già acquistati con il bonus prima casa o, in caso contrario, venderli entro un anno dal nuovo acquisto;
  • avere la residenza nel Comune ove si trova l’immobile da acquistare o trasferirvela entro 18 mesi dal nuovo acquisto;
  • non cedere prima di 5 anni dal rogito la casa appena acquistata con il bonus salvo che, entro un anno, il contribuente compri o riceva in donazione un altro immobile da adibire in tempi ragionevoli a propria abitazione principale. Non basta la semplice firma del compromesso (il cosiddetto contratto preliminare) in quanto esso non vale a trasferire la proprietà del bene; è quindi necessario il rogito vero e proprio;
  • la casa non deve essere di lusso, ossia nelle categorie A/1, A/8, A/9 e A/10.

Bonus prima casa: sanzioni per chi vende prima di 5 anni

Se l’abitazione comprata con il bonus prima casa viene ceduta prima di cinque anni dall’acquisto il contribuente è tenuto a versare all’Agenzia delle Entrate le imposte “risparmiate” al momento del rogito oltre agli interessi e a una sanzione del 30% delle imposte stesse.

In merito, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcune importanti precisazioni.

Se il contribuente non intende acquistare un’altra abitazione entro un anno dalla cessione della casa acquistata con il bonus, può presentare un’istanza all’ufficio presso il quale è stato registrato l’atto, chiedendo la riliquidazione dell’imposta. In questo modo, dovrà pagare solo la differenza tra l’imposta versata al momento dell’acquisto e quella dovuta, oltre agli interessi, ma non sarà soggetto alle sanzioni.

Se, invece, il contribuente lascia trascorrere il termine di 12 mesi, senza acquistare un nuovo immobile o comunicare all’ufficio dell’Agenzia l’intenzione di non voler più fruire dell’agevolazione, si verifica la decadenza dai benefici “prima casa” goduti. In tale ipotesi, se non gli è stato ancora notificato un atto di liquidazione o un avviso di accertamento, può comunque avvalersi del ravvedimento operoso e ottenere la riduzione delle sanzioni.

L’eventuale avviso di revoca delle agevolazioni sulla prima casa può essere pagato a rate. L’importo dovuto può essere versato in un massimo di 8 rate trimestrali di pari importo o, se la maggiore imposta dovuta è superiore a 50.000 euro, in un massimo di 16 rate trimestrali.

In entrambi i casi, il versamento della prima o unica rata deve essere effettuato entro il termine previsto per la presentazione del ricorso (60 giorni dalla notifica dell’avviso). Le rate successive alla prima, invece, devono essere versate entro l’ultimo giorno di ciascun trimestre.

Bonus prima casa: se l’immobile viene ceduto all’ex coniuge

Torniamo ora all’esempio da cui siamo partiti: nell’ambito di un accordo di separazione consensuale, il coniuge titolare della casa (anche solo al 50%) decide di cedere la sua proprietà all’ex quando ancora non sono passati cinque anni dal rogito. Che succede in questi casi? Si perdono le agevolazioni e si è tenuti a corrispondere la differenza di imposte? Secondo la giurisprudenza [1], che più volte si è pronuncia in merito, il contribuente non decade dal bonus. E ciò perché il trasferimento non è che una semplice regolamentazione di rapporti patrimoniali tra coniugi, non un atto di vendita o una donazione; per cui non si perde l’agevolazione fiscale.

Questa interpretazione però è stata a lungo avversata dagli uffici del fisco che hanno inviato comunque gli avvisi di rettifica agli ex proprietari, esigendo le sanzioni.

Ora l’Agenzia delle Entrate ha dichiarato di fare dietrofront e di rinunciare anche alle cause in corso (a patto che i contribuenti, a loro volta, rinuncino alle spese processuali).

La decisione dell’Agenzia delle Entrate nasce dalla presa d’atto del consolidarsi dell’orientamento dei giudici secondo cui con il trasferimento dell’immobile all’ex coniuge in caso di separazione e divorzio prima che siano trascorsi cinque anni dall’acquisto il contribuente non perde l’agevolazione prima casa. E questo anche se il coniuge proprietario non provvede all’acquisto di una nuova casa da adibire ad abitazione principale entro l’anno. Del resto l’applicazione della sanzione conseguente alla decadenza del bonus prima casa ha il solo fine di prevenire comportamenti elusivi meramente speculativi. Intento speculativo che non si intravede e piuttosto è da escludere nei casi di cessione immobiliare senza corrispettivo finalizzato alla definizione dei rapporti tra coniugi nei casi, come detto, di separazione o divorzio.

Inoltre, come ricorda l’Agenzia, gli uffici dovranno allinearsi alla Cassazione anche sull’esenzione dalle imposte di bollo e di registro nel caso di trasferimento dell’immobile all’ex coniuge. Se quest’ultimo è frutto di un divorzio o di una separazione, di fatto si concretizza un atto relativo al procedimento di scioglimento del matrimonio e di cessazione degli effetti civili. Atto che, dunque, è esente da imposta di bollo, registro o ogni altra tassa.

note

[1] Cass. sent. n. 5156/2016 e n. 23225/2015.

Si può sfrattare da una casa non a norma?


Si può sfrattare da una casa non a norma?



La mancanza del certificato di abitabilità non blocca lo sfratto per morosità del conduttore in affitto all’interno di una casa non a norma.

Hai preso in affitto un appartamento pur consapevole del fatto che manca il certificato di abitabilità (o agibilità, che dir si voglia). Il fatto è che, all’inizio, hai accettato il contratto per via del prezzo vantaggioso che ti è stato praticato e del fatto che, in definitiva, l’appartamento corrisponde alle tue esigenze. Nel corso del rapporto, però, ti sei trovato in difficoltà economiche e non hai più potuto pagare il canone. Ora il proprietario ti ha notificato il preavviso di sfratto. A breve dovrete vedervi in tribunale, ma il tuo avvocato ti ha detto che, se vuoi, puoi fare opposizione. La ragione è che l’appartamento senza agibilità non poteva essere affittato. È davvero così? Si può sfrattare da una casa non a norma? La questione è stata decisa proprio ieri dalla Cassazione [1].

La regola vuole che il padrone di casa sia tenuto a dare l’appartamento in condizioni tali da consentire all’inquilino l’uso dell’immobile secondo le intenzioni dichiarate in contratto. Significa che se l’appartamento viene locato per civile abitazione è necessario poterci vivere; se un magazzino viene affittato per un negozio è indispensabile che siano state accordate le opportune autorizzazioni amministrative e che sia a norma. Non c’è dubbio che se il locatore vìola tale obbligo è inadempiente.

Senonché – ed è qui che sta l’aspetto più importante – tale inadempimento può giustificare un’azione dell’inquilino nei suoi confronti, azione volta ad ottenere la riduzione del canone di affitto o la risoluzione del contratto, ma non lo autorizza a farsi giustizia da sé. In termini pratici, vuol dire che se la casa non è a norma, l’affittuario ha due alternative: o avvia una causa contro il locatore oppure deve trovare con questo un accordo. Ma non può di certo procedere, di propria iniziativa, ad autoridursi il canone. Non può cioè decidere, tutto a un tratto, di non pagare più o di pagare di meno. Non almeno fino a quando vive nell’immobile: la sua presenza nell’appartamento dichiara, infatti, sebbene in modo implicito, che alla fine dei conti, nonostante tutti i vizi, l’appartamento riesce a svolgere la sua funzione, quella cioè di una civile abitazione.

Se invece la carenza strutturale dell’appartamento è così grave da costringere l’affittuario ad andare via, allora solo in questo caso questi può smettere di pagare.

Può ricorrere allo sfratto il proprietario di casa inadempiente ai suoi obblighi?

Si pensi a un appartamento dove le finestre non sono ben isolate e generano spifferi. Lo si confronti con una situazione in cui, invece, l’impianto elettrico non è a norma e può creare il rischio di fulminazione. Nel primo caso, tutto sommato, saremmo di fronte a un difetto su cui, tutto sommato, si può passare sopra: esso cioè, per quanto intollerabile, non costringerà mai una persona ad andare in un hotel. Completamente diverso è il secondo esempio dove la presenza dell’inquilino può creare un serio rischio per la sua integrità fisica.

Detto ciò vediamo che incidenza può avere l’assenza dell’attestato di agibilità. Può questo considerarsi un elemento essenziale tale da giustificare una auto-riduzione del canone o la sospensione stessa? Se la risposta dovesse essere positiva, il mancato pagamento del canone mensile non potrebbe mai determinare lo sfratto perché il comportamento dell’inquilino viene giustificato dal grave inadempimento del proprietario.

La presenza dell’attestato di agibilità, per quanto collegata a una verifica amministrativa circa la sicurezza e stabilità dell’appartamento non sempre impedisce di viverci all’interno. Leggi Affittare senza agibilità. Sicché – riferisce la Cassazione – la mancanza del certificato di abitabilità dell’immobile concesso in locazione non blocca lo sfratto per morosità del conduttore. Più che l’aspetto formale, conta quello sostanziale, ossia la verifica delle concrete condizioni del locale (verifica che andrà fatta caso per caso): se questo è astrattamente idoneo ad essere abitato (sicché, qualora richiesto, l’attestato di agibilità verrebbe certamente rilasciato dall’amministrazione) l’affittuario non può smettere di pagare il canone e se lo fa potrà essere sfrattato.

Si può smettere di pagare l’affitto solo se la casa è totalmente inutilizzabile

È sbagliato quindi pensare che l’utilizzo della casa priva del certificato di abitabilità costituirebbe un abuso trattandosi della certificazione attestante che non sussistono rischi per la salute pubblica e l’incolumità delle persone. Il rapporto di locazione si instaura validamente nonostante la mancanza del certificato di abitabilità quando, come nel caso di specie, vi sia stata la concreta utilizzazione dell’immobile. Se quindi il conduttore, prima dell’intimazione di sfratto per morosità, non si è mai lamentato e non ha fatto notare l’assenza del certificato, dimostrando quindi di essere totalmente indifferente alla questione, non può poi sollevare l’eccezione in un momento successivo, eccezione che risulterebbe solo strumentale.

Il criterio rilevante non è dunque la mancanza della certificazione ma l’assoluta inidoneità del bene locato a poterla ottenere. Ne consegue, pertanto, che l’immobile, sotto il profilo urbanistico, deve essere idoneo al conseguimento dell’abitabilità e che solo ove questa qualità di fatto manchi il conduttore può agire per la risoluzione del contratto.

Balcone aggettante: di chi è la proprietà?


Balcone aggettante: di chi è la proprietà?


Balconi e sottobalconi: a chi spettano le spese di manutenzione per il rifacimento e cosa si può fare.

Il balcone: ecco un altro punto dolente dei rapporti condominiali. Nessuno che non sia un avvocato può sapere quante liti genera un semplice, piacevole, salutare balcone. Questo perché il balcone finisce per mettere in contatto tra loro i proprietari e in condominio, si sa, “ciò che unisce, divide”. Dai panni stesi allo sgocciolamento dell’acqua per le piante, dallo scotimento dei tappeti al condizionatore rumoroso; dal passaggio della canaletta per il digitale terrestre all’appoggio delle tende da sole; dai problemi di infiltrazione di acqua dovuti alla pioggia allo scrostamento dell’intonaco. Per non parlare poi delle spese da sostenere quando è necessario rifare i balconi e magari non tutti i condomini godono di questo spazio esterno. Per definire gran parte di queste liti è sufficiente rispondere a una sola domanda: di chi è la proprietà del balcone aggettante, quello cioè che sporge rispetto alla facciata dell’edificio? Da ciò possiamo comprendere chi è tenuto a pagare le spese per la manutenzione, chi per la ristrutturazione o per gli abbellimenti, chi può decidere se fissare una tenda o un impianto caldo/freddo, chi sceglie il colore delle ringhiere.

A dimostrare che il capitolo “balconi” è estramemente caldo è anche l’orientamento della giurisprudenza che, sul punto, ha fornito pareri a volte constrastanti. Su tutto domina la questione della proprietà dei sottobalconi che per anni ha visto la Cassazione orientata in un modo e ora, invece, in un altro.

Ma procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere di chi è la proprietà del balcone aggettante.

Indice

Balcone aggettante: che significa?

Innanzitutto cos’è il balcone aggettante? Lo dice la parola stessa: è una parte che sporge. Sono i balconi che vediamo comunemente nei palazzi, quelli che sono un prolungamento verso l’esterno dell’appartamento e che vanno anche oltre il muro perimetrale dell’edificio. Si distinguono così dai balconi incassati che, invece, sono ricompresi nella facciata e rimangono al suo interno. La disciplina tra i due è diversa soprattutto per quanto riguarda la parte inferiore, la soletta.

Di cosa si compone un balcone aggettante?

Il balcone aggettante è composto innanzitutto da un piano di calpestio, la parte cioè ove si cammina, si mettono le sedie, lo stenditoio, ecc.. Esso è costituito da una pavimentazione realizzata dal costruttore. C’è poi lo stangone che è la parte finale di tale pavimentazione che finisce di solito con un listello in marmo. Poi ci sono ovviamente le ringhiere o parapetti. C’è quindi il cosiddetto frontalino che è quella fascia verticale che segue il profilo basso del balcone, prima del parapetto. Infine, immancabilmente, c’è il sottobalcone, anche chiamato soletta, che è la parte inferiore che non vede il proprietario dell’appartamento cui inerisce il balcone ma quello del piano di sotto.

Lo scopo del balcone aggettante

Scopo del balcone aggettante è quello di consentire l’affaccio al proprietario dell’appartamento cui inerisce, recuperare spazio, prendere aria e luce. Tanto è vero che si può parlare di un vero e proprio diritto alla veduta che, se coperto da una tettoia costruita sul piano di sotto o da altra costruzione può essere tutelato davanti a un giudice.

Di chi è il balcone aggettante?

La giurisprudenza ritiene che il balcone aggettante non sia di proprietà del condominio. Dunque, pur essendo sporgente e costituendo un prolungamento della facciata, non rientra nelle parti comuni dell’edificio. L’assemblea non ha alcuna voce in capitolo sulla manutenzione dei balconi la cui decisione spetta solo ai proprietari, salvo alcune precisazioni di cui a breve diremo.

Ciò significa che il proprietario del balcone aggettante è il proprietario dell’appartamento di cui è prolungamento.

Ciò vale sia per la parte superiore del balcone, il calpestio, che per quella inferiore ossia il sottobalcone o soletta. Un tempo invece la giurisprudenza riteneva che quest’ultima (il sottobalcone) appartenesse al condomino del piano di sotto, il quale ne trae copertura. Tale tesi è stata ormai abbandonata.

Ne consegue che, essendo il sottobalcone di proprietà del condomino del piano superiore, è questi che ne deve sostenere integralmente la spesa per il rifacimento e manutenzione e che può opporsi all’eventuale utilizzo della soletta – da parte del condomino di sotto – per agganciare tende, luci, faretti o impianti di aria condizionata.

Se i decori sono riguardabili come abbellimento dei soli balconi, essi sono del proprietario e questi risponde dei relativi danni; se, invece, hanno funzione di abbellimento della facciata, sono considerati parti comuni dell’edificio, per cui toccherà al condominio risarcire il danno. In particolare, con riferimento ai frontalini (ossia alla parte visibile della soletta del balcone), la Corte di Cassazione li ha considerati beni comuni, in quanto elementi che s’inseriscono nella facciata e concorrono a costituire il decoro architettonico. Stesso discorso per quanto riguarda i parapetti considerati abbellimenti per come diremo nel paragrafo seguente.

Chi paga le spese per le ringhiere?

Tutti gli elementi estetici del balcone, quelli che servono per abbellire la facciata del palazzo, sono invece di proprietà del condominio ed è questo a decidere quando e se provvedere alla manutenzione, ivi provvedendo alla ripartizione delle spese secondo millesimi. Tale è la sorte delle ringhiere e delle fioriere di cemento, quelle “prefabbricate”, realizzate dal costruttore.

Si può trasformare un balcone in veranda?

Detto che il balcone è solo del condomino quest’ultimo è anche libero di trasformarlo in veranda (e così realizzare uno spazio chiuso), ma sempre che:

  • abbia prima chiesto il permesso di costruire al condominio
  • non alteri la stabilità dell’edificio
  • e il decoro architettonico.

Quest’ultima condizione è spesso fonte di litigio perché è molto facile che una veranda possa alterare le linee originali del palazzo. Ciò nonostante il condomino non è tenuto a chiedere il permesso preventivo all’assemblea o all’amministratore prima di avviare i lavori; ma gli potrà essere imposta la demolizione se, a posteriori, l’opera dovesse risultare pregiudizievole per l’estetica dell’edificio. Per ovviare il problema è possibile farsi autorizzare in via preventiva dall’assemblea che, se avrà dato l’ok, non potrà più porre successive contestazioni.

In ogni caso la veranda non può togliere luce e aria al condomino del piano di sopra.

Condizionatori pesanti

Sono vietati gli interventi che possono comportare, in qualsiasi misura, un pregiudizio in ordine alla stabilità o sicurezza dell’edificio condominiale. Ciascun condomino pertanto prima di intervenire sulle proprie parti esclusive deve verificare o far verificare che gli interventi che intende eseguire non si riflettano negativamente sull’intero edificio o comunque su una sua porzione. Si pensi ad esempio a chi installa condizionatori sul proprio balcone non tenendo conto del peso massimo sopportabile dalla soletta.

Si può creare un nuovo balcone?

È possibile aprire un balcone nella facciata, alle seguenti condizioni:

  • si deve rispettare il decoro architettonico dell’edificio;
  • non si deve arrecare danno alle parti comuni o alla proprietà individuale di uno o più condomini;
  • va rispettata la normativa urbanistica e quella sulla distanza legale fra costruzioni.

L’apertura di un balcone è consentita anche se questo sporge sul cortile condominiale, con conseguente occupazione della colonna d’aria sovrastante la parte comune; occorre però accertare che l’iniziativa non pregiudichi la normale fruizione o le possibilità di utilizzo del cortile da parte degli altri condomini.

In pratica l’innovazione non deve comportare una sensibile diminuzione di aria e luce a carico di un condomino o delle parti comuni dell’edificio.

Un condomino non può alzare il parapetto del balcone se ciò compromette il decoro architettonico dell’edificio, né può spostare in avanti la ringhiera, acquisendo la possibilità, fino a quel momento preclusa, di affacciarsi sulla sottostante terrazza.

Spese per i balconi: a chi spettano?

Le spese per il rifacimento dei balconi gravano sul proprietario del relativo appartamento, con la sola eccezione di quelle relative agli elementi decorativi se destinati all’abbellimento della facciata nel suo insieme e non del singolo balcone, da porsi a carico di tutti i condomini su base millesimale (quindi anche su quei condomini che non hanno balcone): vi rientrano i rivestimenti e i frontalini.

Alla spesa richiesta dai decori dei balconi, se destinati all’abbellimento della facciata devono contribuire anche i condomini i cui appartamenti non siano dotati di balcone o siano situati su un altro lato dell’edificio [1].

Quanto alla verniciatura dei parapetti, trattandosi di elementi relativi al decoro architettonico dell’edificio, essa è a carico di tutti i condomini, in base ai millesimi di proprietà, mentre la spesa richiesta dalla sostituzione dei gocciolatoi (canalini che facilitano il deflusso dell’acqua dal parapetto) compete al proprietario se non possono essere considerati ornamenti della facciata.

In occasione del rifacimento della facciata l’assemblea può imporre ai singoli condomini la sistemazione dei parapetti dei balconi, qualora siano riguardabili come elementi decorativi della facciata, deliberando con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000 [2]. Se però si tratta di lavori particolarmente costosi occorre anche in seconda convocazione il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000 [3].”

note

[1] Cass. sent. n. 14576/2004.

[2] Cass. sent. n. 7603/1994.

[3] Passi di: Massimo Fracaro eGermano Palmieri. “IL NUOVO CONDOMINIO”. iBooks.

Affitto casa: lavori senza permesso, che succede?



Migliorie e addizioni nell’appartamento in locazione: la divisione delle spese e l’indennità all’inquilino.

Quando si prende in affitto un appartamento, sia che ciò avvenga per uso abitativo che per attività commerciali o professionali, l’inquilino (ossia il conduttore) deve servirsi dell’immobile con la «diligenza del buon padre di famiglia». Il che significa che non può utilizzare l’immobile per scopi e finalità non previste nel contratto. Ciò però non vieta l’esecuzione, all’interno dell’immobile, di lavori necessari a migliorarne il godimento. Ma entro quali limiti e seguendo quali autorizzazioni? In altre parole, in ipotesi di affitto di una casa, che succede per i lavori senza permesso? È quanto cercheremo di comprendere in questo articolo distinguendo tra lavori di miglioria (di cui parleremo subito) dalle semplici addizioni (di cui parleremo in chiusura).

Condizioni per fare lavori di miglioria dell’appartamento

Iniziamo dai lavori di miglioria dell’appartamento, quelli cioè che ne aumentano il valore e comportano una maggiore utilità o godimento. È facoltà dell’inquilino eseguire, all’interno della casa presa in affitto, dei lavori per aumentarne la qualità, il valore economico o per migliorarne l’utilizzo. Tali spese sono integralmente a suo carico; non può pertanto chiederne il rimborso al proprietario dell’appartamento salvo patto contrario.

L’affittuario può eseguire i lavori di miglioramento dell’immobile a due condizioni:

  • rispettare la diligenza del buon padre di famiglia: il che significa, ad esempio, che non può degradare l’immobile solo per renderlo confacente alle proprie esigenze;
  • non mutare la destinazione d’uso dell’immobile: ad esempio, chi firma una locazione per destinare la casa a propria residenza non può dopo mutarne la destinazione e farne un ufficio o un negozio, a meno che non abbia ottenuto il consenso del proprietario.

Chi sostiene le spese per i lavori di miglioria dell’appartamento?

I lavori eseguiti dall’affittuario all’interno della casa, rispettando i due limiti appena indicati, sono a suo carico. Il che significa che non può neanche chiedere una indennità per i miglioramenti apportati. Non importa che, a seguito delle modifiche, l’immobile abbia visto aumentare il proprio valore commerciale e che il locatore, espressamente interpellato, abbia autorizzato l’inquilino ad eseguire tali interventi: l’autorizzazione (tacita o espressa che sia) sull’esecuzione delle opere non riguarda anche l’accollo delle spese salvo sia stato pattuito in modo diverso tra le parti. Sarà meglio che un accordo del genere figuri per iscritto in modo da non originare fraintendimenti o ripensamenti. Se c’è una scrittura privata, peraltro, in caso di mancato rimborso degli importi anticipati dall’inquilino, questi potrà chiedere un decreto ingiuntivo in tribunale contro il padrone di casa; non potrà tuttavia compensare le somme spese con i canoni di locazione. E’ tuttavia possibile compensare i miglioramenti apportati con i danni arrecati all’immobile e che si sono verificati senza colpa grave [1].

L’indennità per i lavori di miglioria dell’appartamento

Abbiamo appena detto che il consenso del locatore all’esecuzione dei lavori in casa non implica anche un accollo delle spese. Tuttavia può implicare il diritto a una indennità. Cerchiamo di spiegarci meglio. In base al codice civile [1], se il locatore acconsente o approva espressamente i miglioramenti (preventivamente o successivamente, mediante ratifica della loro esecuzione), deve pagare al conduttore un’indennità calcolata secondo il criterio che diremo a breve. Il semplice fatto di aver “tollerato” i lavori non è sufficiente a far scattare il diritto all’indennità [2].

A quanto ammonta l’indennità per i lavori eseguiti nell’appartamento?

L’indennità è pari alla minor somma tra l’importo della spesa sostenuta dall’inquilino e la differenza di valore dell’appartamento tra la data di inizio della locazione e quella della riconsegna. Facciamo qualche esempio per comprendere meglio cosa significa:

  • se i lavori sono costati 10mila euro e l’immobile ha avuto un incremento di valore di 4mila euro, l’inquilino ha diritto a un’indennità di 4mila euro (che, appunto, è la minor somma tra le due);
  • se invece i lavori sono costati 5mila euro ma l’immobile si è apprezzato di circa 20mila euro, l’indennità corrisponde a 5mila euro.

Il conduttore può richiedere tale indennità al momento della riconsegna dell’appartamento, poiché solo in tale occasione è possibile verificare l’eventuale aumento di valore dell’immobile.

Le addizioni all’appartamento eseguite dall’inquilino

Finora abbiamo visto le regole per i lavori di miglioria nell’appartamento (ad esempio la realizzazione di un soppalco, di una vetrata, ecc.). Guardiamo ora la disciplina per le cosiddette addizioni ossia quelle opere che, pur unite o incorporate al bene, non si fondono con esso, conservando la loro autonomia ed individualità (si pensi a un impianto di riscaldamento autonomo, un condizionatore esterno, una cisterna dell’acqua).

Anche in questo caso l’inquilino può eseguire i lavori purché rispetti:

  • la diligenza del buon padre di famiglia;
  • la destinazione d’uso dell’immobile.

Se le addizioni sono facilmente separabili (ad esempio le tende da sole) il locatore può decidere di tenerle per sé; in tal caso dovrà pagare all’affittuario un’indennità (pari alla minor somma tra l’importo della spesa e il valore delle addizioni al tempo della riconsegna).

Se il padrone di casa non vuole tenere per sé le addizioni, il conduttore può toglierle alla fine della locazione. Ma se ciò arreca danno all’appartamento il locatore può chiedere il risarcimento del danno mediante l’eliminazione da parte del conduttore delle opere abusivamente eseguite.

Se le addizioni non sono facilmente separabili dall’appartamento e detta separazione può procurare un danno (ad esempio l’impianto di aria condizionata) il locatore ne diventa proprietario. Egli deve versare un indennizzo al conduttore solo se l’addizione comporta un miglioramento del bene. In tal caso si osserva la stessa disciplina delle opere di miglioria di cui abbiamo parlato sopra.

domenica 10 giugno 2018

Agevolazioni prima casa: qual è il termine di decadenza degli accertamenti



Ho comprato casa nel gennaio 2010 e rivenduta a luglio 2013, quindi prima della scadenza dei cinque anni. Non ho acquistato nessuna casa l’anno successivo (l’ho acquistata solo nel maggio 2016, dove attualmente risiedo). Sapevo che sarei andato incontro alle sanzioni previste sul ritorno dell’IVA. A tutt’ oggi non ho ricevuto nessuna notifica dalla Agenzia delle Entrate. Qual è il termine massimo per gli accertamenti? Tre anni? In un sito ho letto che a seguito della legge di stabilità del 2016, i termini sono passati a 5 anni + 1 per il riacquisto + ulteriori 3 anni. Dopo quanto tempo gli accertamenti sono prescritti? Nel mio caso posso considerare passati i tre anni?

Deve immaginarsi che, nonostante non si stato menzionato dal lettore nel quesito, questi si riferisca all’acquisto di immobile mediante agevolazioni prima casa. In tale ipotesi, come dallo stesso correttamente affermato, la vendita infra-quinquennale dell’immobile, non seguita entro l’anno dall’acquisto di una nuova abitazione da destinare a prima casa, comporta la decadenza dalle agevolazioni.

La conseguenza consiste di fatto nella richiesta delle maggiori imposte (non versate beneficiando del bonus prima casa) e delle sanzioni irrogate dal Fisco. L’Agenzia delle Entrate notifica al contribuente un avviso di liquidazione con il quale, appunto, comunica l’accertamento della decadenza per vendita infra-quinquennale e, per l’effetto, liquida la differenza di imposte dovute fin dall’inizio (Iva e imposte di registro, ipotecaria e catastale) e irroga la sanzione (riducibile in ipotesi di ravvedimento operoso).

Il termine di decadenza (non di prescrizione) entro il quale l’Agenzia delle Entrate deve notificare il predetto avviso è di tre anni ai sensi dell’art. 76 DPR n. 131/1986, termine che non è mai stato modificato dalla Legge di Stabilità 2016. Tale ultima legge ha, invece, introdotto l’importante novità (che, comunque non interessa il caso di specie) secondo la quale può usufruire delle agevolazioni prima casa anche chi possiede già un immobile nello stesso Comune, a condizione che lo venda entro un anno dalla data dell’atto di acquisto del nuovo da destinare a prima casa.

Tornando al quesito in esame, non vi è dubbio che il termine di decadenza per la notifica dell’avviso di liquidazione da parte dell’Agenzia delle Entrate sia di tre anni. Occorre però comprendere da quando decorre tale termine. La risposta chiarificatrice è stata fornita di volta in volta dalla giurisprudenza della Cassazione sia per l’ipotesi del mancato trasferimento della residenza entro 18 mesi sia per quella dell’alienazione dell’immobile prima dei cinque anni (cause più ricorrenti di decadenza dal bonus prima casa).

Ebbene, nel caso di vendita infraquinquennale, dal momento che il contribuente può “salvare” le agevolazioni acquistando entro 1 anno un nuovo immobile, l’Agenzia deve necessariamente far decorrere tale periodo prima di poter procedere con l’accertamento e la liquidazione delle maggiori imposte. Ne discende che il termine complessivo di decadenza per la richiesta delle maggiori imposte da parte del Fisco è di fatto di 3 anni + 1 dalla vendita dell’immobile. Ciò in quanto, come confermato dalla Cassazione, il termine triennale inizia a decorrere, non dalla data di vendita dell’immobile acquistato con i benefici prima casa, ma dopo 1 anno dalla data di registrazione dell’atto di vendita.

Nel caso specifico, se l’atto di vendita è stato registrato nel luglio 2013, i termini a disposizione del Fisco sono scaduti a luglio 2017. Un eventuale avviso di liquidazione notificato tardivamente sarebbe illegittimo e nullo.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone

Ecobonus: ecco come funziona la cessione del credito



Da qualche giorno è possibile cedere l’ecobonus per i lavori in casa o in condominio e “scambiarlo con denaro contante”. È quanto stabilisce una circolare dell’Agenzia delle Entrate dello scorso 18 maggio. L’iniziativa riguarda anche quelle imprese che decidono di riqualificare i propri immobili. E chi ha redditi sui quali non sono dovute imposte, o in altre parole si trova nella cosiddetta no tax area, può cedere il proprio bonus alle banche.

La detrazione è pari al 50% per gli interventi sui singoli immobili che riguardano nuovi infissi, caldaie a condensazione e schermature solari. Ma la percentuale diventa del 65% se sono interessate pompe di calore, nuove caldaie e contabilizzatori, boiler a gas, caldaie a biomasse e la coibentazione di tetti e pareti. L’aliquota può poi salire fino al 70% o al 75% se si tratta di interventi in condominio che riducono la classe energetica dell’immobile. E diventa addirittura dell’85% nel caso in cui oltre al risparmio energetico viene trattata anche la messa in sicurezza del rischio sismico.

Una volta pagati i lavori, si potrà cedere il credito ai soggetti stabiliti dalla suddetta circolare dell’Agenzia delle Entrate. Ossia i fornitori che hanno effettuato l’intervento, oppure le cosiddette Esco (Energy service companies, società che effettuano interventi per l’efficientamento energetico accettando un rischio finanziario). O, ancora, le Sse (società di servizi energetici) oppure soggetti privati, come ad esempio lavoratori autonomi e imprese con la condizione che siano in qualche modo collegati al rapporto che ha dato origine alla detrazione. Non quindi a soggetti che siano del tutto estranei ai lavori.

Inoltre il credito può essere ceduto ad altri soggetti privati, ad esempio lavoratori autonomi e imprese, purché si tratti di soggetti comunque collegati al rapporto che ha dato origine alla detrazione, o con gli immobili interessati (ad esempio altri condomini), ma non a soggetti del tutto estranei ai lavori. Chi accetta può a sua volta cedere il bonus ad altri, ma, precisa la circolare, l’ulteriore cessione può avvenire una sola volta. Infine, i contribuenti che si trovano nella no tax area possono cedere il credito alle banche e agli altri intermediari finanziari, sempre che questi ultimi accettino l’operazione.

di Giovanni Marrucci

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Locazione a canone concordato non assistita, attestazione obbligatoria per le agevolazioni




In una recente risposta della Dre Piemonte n. 901-88/2018 è stata affrontata la questione relativa all’attestazione dei canoni concordati per i contratti stipulati senza la presenza dei rappresentanti delle associazioni di categoria (proprietari e inquilini). Secondo quanto stabilito, la fruizione delle agevolazioni fiscali per le locazioni a canone concordato richiede la sottoscrizione di almeno una delle associazioni di categoria, non essendo sufficiente l’autocertificazione delle parti contrattuali.

Come sottolineato da un articolo pubblicato su Italia Oggi, per ottenere i vantaggi fiscali previsti per i contratti concordati non era richiesta obbligatoriamente la presenza delle associazioni di categoria nella sottoscrizione del contratto, essendo sufficiente che il contratto stipulato tra le parti avesse i requisiti previsti negli accordi territoriali. Un aspetto esplicitamente previsto anche nel decreto interministeriale delle Infrastrutture e dei Trasporti del 30 dicembre 2002, nonché in quelli approvati in precedenza.

Ma con il dm 16 gennaio 2017 le cose sono cambiate. Il dm 16 gennaio 2017 ha rivisto le regole per l’ottenimento del “bollino” di contratto a canone concordato e ha previsto due ipotesi.

  • La prima: il contratto di locazione deve essere sottoscritto con la presenza dei rappresentanti delle associazioni di categoria (facoltativa e non obbligatoria), nel qual caso l’attestazione è implicita e non richiede alcun altro adempimento.
  • La seconda: laddove il contratto sia sottoscritto dalle parti senza la presenza delle associazioni di categoria (cosiddetti “contratti non assistiti”), il dm 16 gennaio 2017 demanda agli accordi territoriali stipulati in sede locale le modalità di attestazione dei requisiti del canone, a cura e con assunzione di responsabilità da parte di almeno una delle organizzazioni che hanno firmato l’accordo territoriale (articolo 1, comma 8, del citato decreto).

Nella sua risposta la Dre Piemonte ha ricordato che la risoluzione n. 31/E/2018 aveva già precisato che per i contratti a canone concordato “non assistiti” l’attestazione in questione costituisce elemento necessario per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali (cedolare secca 10%, ulteriore riduzione ai fini Irpef del 30% e riduzione Imu e Tasi in alcuni casi).

La circolare n. 7/E/2018 ha poi precisato che l’attestazione non è richiesta per tutti i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del dm 16 gennaio 2017 (quindi fino al 29 marzo 2017), ovvero anche sottoscritti in un momento successivo laddove nel Comune non sia stato ancora stipulato l’accordo territoriale delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di categoria inquilini e proprietari, che recepisce le previsioni del predetto decreto.

E’ stato infine sottolineato che nella compilazione della sezione II del quadro Rb del modello redditi 2018 non è più richiesta l’indicazione degli estremi di registrazione del contratto di locazione a canone concordato, ad eccezione dei contratti riferiti ad immobili situati nelle zone dell’Abruzzo colpite dal sisma del 2009.

Fonte idealista

Immagine del giorno: Andamento mutui da fonte notarile


Istat

Le convenzioni notarili per mutui, finanziamenti e altre obbligazioni con costituzione di ipoteca immobiliare (106.500) crescono dello 0,9% rispetto al trimestre precedente e diminuiscono dell’1,9% su base annua.

A livello territoriale, sono di segno positivo le variazioni congiunturali registrate nel Sud (+3,8%), nel Nord-est (+2,3%) e nel Nord-ovest (+1,4%); di segno negativo nelle Isole (-5,2%) e nel Centro (-1,6%). Su base annua si ha una flessione in tutte le ripartizioni geografiche: Centro (-5,8%), Isole (-1,9%), Nordovest (-1,8%), Nord-est (-0,9%), fatta eccezione per il Sud (+2,0%). Il decremento tendenziale interessa sia le città metropolitane (-2,2%) che i piccoli centri (-1,7%).

Imu e Tasi 2018: tutto sul pagamento della prima rata di giugno



È cominciato il conto alla rovescia per il pagamento della prima rata di Imu e Tasi per il 2018. A versare l'acconto delle imposte sulla casa saranno chiamati i proprietari di prime case di lusso e di immobili diversi dall'abitazione principale. idealista news ti fornisce un'utile guida con tutte le informazioni per arrivare preparati all'appuntamento con il Fisco.

Guida Imu e Tasi 2018
Calcolatrice Imu e Tasi
Scadenza pagamento Imu e Tasi 2018

La prima rata dell'Imu e della Tasi dovrà essere corrisposta entro il 18 giugno 2018 (in quanto il 16 cade di sabato), mentre la seconda rata entro il 17 dicembre. In alternativa si potrà optare per un pagamento unico a giugno.  Nel 2018 la scadenza per lunedì 18 giugno (in quanto il 16 cade di sabato). Maggiori informazioni...

Aliquote Imu 2018

La prima rata dovrà essere uguale al 50% delle imposte dovute - calcolate con le aliquote relative al 2017 - mentre la seconda rata al restante 50%. Questa dovrà essere calcolata con le nuove aliquote elaborate dai comuni per l'anno in corso. In alternativa si utilizeranno anche a dicembre le aliquote del 2017. Maggiori informazioni...

Come si calcolano l'Imu e la Tasi

Le modalità di calcolo di Imu e Tasi sono le stesse. Per entrambe le imposte punto di partenza è la rendita catastale, rivalutata del 5%. La rendita così ottenuta deve essere moltiplicata per il coefficiente, diverso per ogni tipologia di immobile, e al risultato così ottenuto bisogna applicare le aliquote decise dai comuni. Maggiori informazioni...

Imu e Tasi come si paga

Una volta calcolato l'importo delle nostre imposte, per il pagamento si può usare il modello F24, reperibile presso gli sportelli bancari e gli uffici postali o disponibile online. Nel modello bisogna compilare la sezione relativa a "Imu e altri tributi locali" come illustrato qui. Per una corretta compilazione del modello F24 per Imu e Tasi 2018 è importante conoscere i codici tributo, tra cui uno dei più importanti è il codice tributo 3918. Maggiori informazioni...

Tasi prima casa 2018

Non si paga la Tasi sulle case utilizzate dal proprietario come prima casa, secondo la definizione contenuta nel decreto Salva-Italia. Si tratta dell'immobilie nel quale il proprietario e il suo nucleo familiare vivono abitualmente e risiedono anagraficamente. Se i componenti del nucleo familiare risiedono in case diverse nello stesso Comune, solo una avrà l'esenzione, se sono in Comuni diversi, entrambi avranno l'esenzione. La casa deve essere iscritta come un'unica unità immobiliare.  Maggiori informazioni...

Tasi comodato uso gratuito

Riduzione del 50% della base imponibile dell'imposta per i proprietari che concedono ai figli un immobile in comodato gratuito. Sempre e quando si rispettino determinate condizioni. Maggiori informazioni...

Tasi inquilini

La Legge di Stabilità prevede l'abolizione della Tasi 2018 anche per gli inquilini che hanno scelto l'unità immobiliare come abitazione principale. Continueranno a pagarla gli studenti fuorisede o chi si sposta per lavoro senza spostare però la propria residenza. La quota abolita agli inquilini non si sposterà sui proprietari che continueranno a pagare una quota tra il 70 e il 90%. Maggiori informazioni...

Tasi coniugi separati

I separati e i divorziati la cui casa coniugale è stata assegnata all’ex da una sentenza di separazione o per annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio non dovranno pagare la Tasi. Stop, dunque, alle tasse sulla prima casa per i separati che lasciano l'abitazione all’ex coniuge.

Imu case di lusso

Le categorie catastali A1, A8 e A9 (ovvero case signorili, ville e castelli) continueranno a pagare l'Imu 2018, ma con un'aliquota agevolata al 4 per mille e una detrazione di 200 euro. Ma ci sono ville di lusso che sono esenti dal pagamento: si tratta delle villette inserite nella categoria catastale A7. Maggiori informazioni...

Aliquota Imu canone concordato

La legge di stabilità ha previsto agevolazioni per le case date in affitto a canone concordato, che usufruiscono di una riduzione Imu del 25%. Maggiori informazioni...

Imu immobili invenduti

Gli immobili invenduti delle imprese costruttrici continueranno a pagare l'Imu, ma con un'aliquota agevola dell'1 per mille.

Imu e Tasi per i residenti all'estero

Anche i cittadini residenti all'estero dovranno pagare l'Imu e la Tasi, ad eccezione dei cittadini che percepiscono una pensione nel Paese di residenza, a condizione che l'immobile posseduto in Italia non sia locato o dato in comodato d'uso. Maggiori informazioni...

Imu e Tasi case inagibili e dimore storiche

I proprietari di immobili inagibili, inabitali e dimore storiche hanno diritto ad una riduzione del 50% della base imponibile di Imu e Tasi. Maggiori informazioni...

Imu terreni agricoli 2018 e imbullonati

Dal 2017 è entrato in vigore l'esenzione dell'Imu per i terreni agricoli per i coltivatori diretti e per gli imprenditori agricoli professionali (IAP). La legge di Stabilità per il 2016 ha infatti cancellato la classificazione dell'Istat fra tra terreni montani, parzialmente montani o di pianura e rintroduce la vecchia classificazione dei terreni agricoli. Maggiori informazioni...

A partire dal primo gennaio 2016 le imprese  hanno potuto escludere i macchinari imbullonati dal calcolo della rendita e quindi dalla base imponibile fiscale per il pagamento dell'Imu.

Fonte Idealista

domenica 3 giugno 2018

Soppalco: altezza minima e autorizzazioni


Soppalco: altezza minima e autorizzazioni

Soppalco: altezza minima dal soffitto

Vediamo ora a quale altezza deve essere collocato il soppalco. Anche in questo caso la soluzione cambia in relazione all’utilizzo del soppalco stesso: se cioè a uso abitativo o deposito.

La prima cosa da fare è verificare il regolamento edilizio comunale per verificare se vi sono regole particolari. In esso, di solito, viene anche stabilita l’altezza minima del soppalco dal soffitto. Se il regolamento nulla dice, si applica la legge [3]. Questa stabilisce che l’altezza netta degli ambienti abitativi non può essere inferiore a 2,70 metri; invece l’altezza dei vani accessori delle abitazioni non abitabili (come bagni, corridoi o ripostigli) non può essere inferiore a 2,40 metri.

Tali regole valgono solo per i soppalchi abitabili, quelli cioè che realizzano ambienti in cui vivere. Pertanto che il soppalco può essere ricavato solo in spazi compresi (tra pavimento e soffitto) entro questo range di altezza. Di conseguenza, esso deve essere considerato abusivo – e l’immobile privo di agibilità – se non rispetta le altezze minime previste dalle norme nazionali nonché dal Regolamento edilizio. Il TAR sottolinea, al riguardo, che «non è consentita l’edificazione di manufatti che violino strutturalmente la normativa edilizia, specialmente se trattasi di regole relative all’abitabilità degli ambienti».

Viceversa, per i soppalchi a uso deposito bisogna confrontarsi con i regolamenti comunali. In generale questi prevedono altezze minime inferiori. Nel caso di Napoli, ad esempio, è prevista una altezza di 1,80 metri e a condizione che l’altezza utile dei locali sottostanti non sia inferiore a 2,70 metri.

Resta sempre la possibilità di creare piccole mensole di pochi centimetri anche a distanza ravvicinata al soffitto che, in realtà, non rientrano neanche nella definizione di soppalchi.

note

[1] Tar Napoli sent. n. 3448 del 25.05.2018.

[2] Consiglio di Stato, sent. 2 marzo 2017, n. 985; TAR Lazio, Roma, Sezione I quater, sent. 24 marzo 2015, n. 4495; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, sent. 23 gennaio 2013, n. 413 e Sezione VII, sent. 14 gennaio 2011, n. 168. TAR Sardegna, Cagliari, Sezione II, sent. 23 settembre 2011, n. 952; TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sent. 11 luglio 2011, n. 1863; TAR Campania, Napoli, Sezione II, sent. 21 marzo 2011, n. 1586.

[3] Dm 5 luglio 1975, modificato dal Dm 9 giugno 1999, nonché dell’art. 43, comma 2, lett. 13) della legge 457/1978.