martedì 31 gennaio 2017

Decadenza agevolazioni prima casa, i chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate

Nella risoluzione n. 13/E l’Agenzia delle Entrate, recependo alcuni principi emersi alla luce di recenti pronunce della Corte di Cassazione, fornisce chiarimenti su come evitare la decadenza delle agevolazioni sulla prima casa. Il contribuente che vende entro cinque anni l’immobile acquistato con i benefici “prima casa”, ed entro un anno dalla cessione costruisce un altro immobile ad uso abitativo su un terreno di cui il contribuente sia già proprietario al momento della cessione dell’immobile agevolato, non perde l’agevolazione.

Quando permane l’agevolazione “prima casa”

Come previsto dal Testo unico dell’imposta di registro, il trasferimento dell’immobile acquistato usufruendo dell’agevolazione prima casa, prima che siano decorsi cinque anni dall’acquisto, comporta la decadenza dal regime di favore, salvo che il contribuente, entro un anno dall’alienazione, proceda all’acquisto di un altro immobile ad uso abitativo classificabile in una categoria catastale diversa da A1, A8 e A9, da adibire a propria abitazione principale.

Come precisato in precedenti documenti di prassi, la decadenza dal beneficio è impedita anche se il contribuente provvede all’acquisto di un terreno sul quale venga realizzato, entro un anno dalla vendita, un immobile destinato ad abitazione principale.

La precisazione recata dalla risoluzione

Il documento di prassi, alla luce della recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità, precisa ulteriormente che la decadenza dall’agevolazione è impedita anche se la costruzione del nuovo fabbricato da adibire ad abitazione principale venga effettuata su un terreno di cui il contribuente sia già proprietario al momento della cessione dell’immobile agevolato

Affitti non pagati, il 51% dei proprietari denuncia mensilità saltate

Il 51% dei proprietari di casa denuncia affitti non pagati. Si tratta della metà delle persone che possiedono un'abitazione e che decidono di metterla in affitto. Una percentuale decisamente alta. A rivelarlo un’indagine dell’Adnkronos, con il contributo delle associazioni territoriali che rappresentano gli inquilini e i proprietari.

Si tratta di un dato che cresce leggermente rispetto alla stessa rilevazione del marzo scorso, quando si attestava al 48%.

La situazione peggiora rispetto alla media nazionale in alcune aree del Sud, con Napoli e Palermo che arrivano a una quota di proprietari in credito vicina al 60%. Va meglio a Roma (35%) e a Milano (24%).

Le cose non migliorano se si prende in considerazione il mancato pagamento delle rate di condominio. Il dato registra un incremento rispetto a un anno fa: sale al 32%, dal 27%, la quota di condomini in ritardo con i pagamenti. Le maggiori irregolarità si riscontrano al Sud. A Napoli, il 40% dei condomini è in debito con il proprio condominio. Mentre la quota scende al 23% a Roma e al 18% a Milano.

domenica 29 gennaio 2017

Come pagare meno tasse sulla seconda casa

 

Come pagare meno tasse sulla seconda casa

L’AUTORE: Carlos Arija Garcia

Carlos Arija Garcia 

Affittarla, cederla ad un parente, trasformarla in unità collabente. E, nei casi più estremi, demolirla. Ecco come risparmiare restando nella legalità.

Avere una seconda casa al mare, in montagna o sul lago non è sinonimo di essere ricchi, anzi: a volte rappresenta un peso economico se non insostenibile sì, almeno, gravoso. Soprattutto se la seconda casa è frutto di un’eredità arrivata nel momento più inopportuno, quando sono già stati assunti altri impegni e di avere un trilocale a 50 metri dalla spiaggia non c’era nemmeno il pensiero.

La seconda casa, in effetti, è una spesa fiscale in più. Cosa fare per risparmiare, allora? Come pagare meno tasse sulla seconda casa, restando ovviamente nella legalità, affinché da sogno non si trasformi in incubo? Vediamo, intanto, quali tasse si pagano sulla seconda casa, per poi capire come ridurle o evitarle.

Quali tasse sulla seconda casa

La prima tassa sulla seconda casa si paga al momento dell’acquisto: un’imposta di registro del 9% sul valore catastale dell’immobile. A questa tassa c’è da aggiungere sistematicamente altre tre: Imu, Tasi e Irpef.

Se la seconda casa si trova nello stesso Comune di residenza dell’abitazione principale contribuisce a formare il reddito imponibile Irpef del proprietario soltanto per una quota parte del suo reddito fondiario. In altre parole, acquistare una seconda casa soggetta a Imu fa reddito imponibile Irpef nella misura del 50%. Se ne deduce che la tassazione sulla seconda casa sarà equivalente alla metà della rendita catastale da indicare sulla dichiarazione dei redditi.

Intestare la seconda casa ad un parente

E’ uno dei trucchi più utilizzati per pagare meno tasse sulla seconda casa: intestare l’immobile ad un parente o ad un amico che non abbia ancora un appartamento a suo nome. In questo modo, com’è ovvio immaginare, entrambi avranno una prima casa e si risparmierà sui costi. Purché sia una persona di fiducia, perché il nuovo intestatario (figlio, cognato o compare che sia) avrà a tutti gli effetti i diritti sull’immobile. Anche il diritto di non farvi entrare e di godersela da solo oppure di affittarla o venderla. Chiedergli come garanzia la sua Ferrari non conviene: tra bollo, assicurazione e benzina, forse costa di meno avere il trilocale al mare.

Non vale fare la separazione dei beni tra i coniugi e nemmeno una finta rottura del matrimonio per intestare una casa al marito a l’altra alla moglie e così pagare meno tasse sulla seconda casa: se entrambi continuano a vivere insieme, per lo Stato una cosa del genere si chiama truffa ai danni dell’Erario pubblico. Che ha conseguenze più care del tenersi il trilocale al mare come seconda casa.

Trasformare la seconda casa in unità collabente

Trucchetto numero due: cambiare i connotati della casa al catasto, trasformandola da unità abitativa a unità collabente. Il che significa rendere tutta l’abitazione o una parte di essa inabitabile. Premesso che il riaccatastamento della casa può essere più o meno semplice a seconda dei regolamenti comunali, una casa in parte inabitabile ha una metratura inferiore sulla quale calcolare le tasse. Alcuni Comuni tengono, comunque, conto di quella metratura in quanto fa parte dell’immobile, ma la sottopongono ad un’aliquota più bassa. Quindi il risparmio c’è. Questo il vantaggio. Ma c’è anche uno svantaggio: quella porzione di immobile la si dovrà davvero lasciare in condizioni di non essere abitata, cioè che non abbia l’allacciamento alle utenze di luce, acqua e gas e che, ad esempio, non abbia degli infissi. Altrimenti scatta la truffa.

Affittare la seconda casa

Soluzione numero tre per pagare meno tasse sulla seconda casa (o tentare di farlo): affittarla. Dal Fisco qualcosa si recupera ed, in più, c’è un’entrata fissa tutti i mesi che, altrimenti, non si avrebbe.

Si può, per esempio, adottare il regime della cedolare secca, cioè quello sostitutivo dell’imposta sugli affitti che garantisce una tassazione agevolata ridotta tra il 10% ed il 21%.

Piano B per pagare meno tasse sulla seconda casa affittata: il canone concordato. L’unica condizione richiesta è che la seconda casa si trovi in un Comune ad alta densità di popolazione, cioè non in un paesello sperduto in mezzo alla campagna con quattro anime ed altrettante pecore. Il reddito che deriva dalla locazione sarà pari al reddito fondiario (cioè, quello relativo al possesso di terreni o fabbricati) ridotto del 30%. E quant’è questo reddito fondiario dal quale dedurre il 30%? E’ pari al maggior valore tra il canone risultante dal contratto di affitto ridotto forfettariamente del 5% e il valore della rendita catastale rivalutata del 5%. Se la matematica non mi tradisce, dal valore del canone va ridotto il 30% + il 5%. L’agevolazione aumenta se l’immobile è di interesse storico o artistico.

Abbattere la seconda casa

A mali estremi, estremi rimedi. Se si riceve in eredità un immobile fatiscente, bisognoso di un consistente intervento di ristrutturazione e, per di più, in una zona che il proprietario non frequenterà mai (metti che lo zio della Basilicata la lascia al nipote valdostano, così per dire), per pagare meno tasse sulla seconda casa una soluzione può essere demolirla. Non crediate sia una cosa così strana: ci sono molti più casi di quelli che potreste pensare. Come detto, si tratta di case su cui non vale nemmeno la pena di metterci le mani, disabitate da tempo, con le pareti interne che cascherebbero giù al primo starnuto. Se la loro metratura e la loro posizione contribuiscono, comunque, a fare reddito perché possono essere considerate abitabili con un intervento di ristrutturazione, tanto vale. Due colpi di ruspa. Con tutti i rispetti per lo zio.

Tassa rifiuti casa disabitata, quando è possibile l’esenzione o la riduzione

 

La Tari è la tassa sui rifiuti, che ha sostituito le vecchie Tarsu, Tares e Tia. E’ uno dei tre balzelli che gravano sull’abitazione. Nell’ipotesi di casa disabitata è possibile l’esenzione del suo pagamento?

Come sottolineato da Studio Cataldi, la Tari è costituita da una componente fissa, data dal costo del servizio erogato che viene determinato dalla superficie dell'abitazione, e da un costo variabile, dato dalla quantità effettiva di rifiuti prodotti da chi abita l’immobile. Per quest’ultima sono previste esenzioni e riduzioni.

Tari, quando c’è l’esenzione

La legge prevede una riduzione o esenzione dal pagamento della Tari relativamente alle seconde case disabitate quando l’immobile è inutilizzabile (qualora un immobile non sia utilizzabile perché, ad esempio fatiscente o non sfruttabile in alcun modo, vi è esenzione totale dal pagamento della Tari, la totale inutilizzabilità dovrà essere provata effettivamente dimostrando che nel locale non vi sia alcun allaccio di rete elettrica, idrica o fognaria); nel caso di cantine e garage; quando la seconda casa è in ristrutturazione.

Tari, quando c’è la riduzione

Ci sono casi, poi, in cui è possibile fruire di riduzioni sulla Tari e/o agevolazioni:

  • immobili abitati da una sola persona;
  • case per le vacanze;
  • immobili occupati da soggetti che per almeno sei mesi all’anno risiedono all'estero;
  • fabbricati rurali;
  • contribuenti che effettuano lo smaltimento dei rifiuti in proprio tramite compostaggio o che abbiano realizzato interventi per produrre meno rifiuti: tale ultima ipotesi dovrà essere verificata dal Comune.

Per poter richiedere l’esenzione dal pagamento o la riduzione occorre rivolgersi al proprio Comune di residenza o compilare l’apposito modulo predisposto all’interno del sito web dell’amministrazione comunale.

Cedolare secca, i chiarimenti sulla comunicazione al conduttore

 

 

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito con quali modalità è necessario comunicare al conduttore la rinuncia agli aggiornamenti del canone in caso di opzione per il regime della cedolare secca.

All’interno della rubrica “La Posta” di Fisco Oggi è stato posto il seguente quesito:

Con quali modalità è necessario comunicare al conduttore la rinuncia agli aggiornamenti del canone in caso di opzione per il regime della cedolare secca?

L’Agenzia delle Entrate ha così risposto:

Nel caso in cui il locatore eserciti l’opzione per l’applicazione della cedolare secca, è sospesa, per un periodo corrispondente alla durata dell’opzione, la facoltà di chiedere l’aggiornamento del canone, anche se prevista nel contratto a qualsiasi titolo, inclusa la variazione accertata dall’Istat dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nell’anno precedente (articolo 3, comma 11, Dlgs 23/2011).

Quindi, per poter beneficiare della cedolare secca, il locatore deve comunicare preventivamente al conduttore, tramite lettera raccomandata, la scelta del regime alternativo e la conseguente rinuncia, per il corrispondente periodo di durata dell’opzione, a esercitare la facoltà di chiedere l’aggiornamento del canone a qualsiasi titolo. E’ esclusa la validità della raccomandata consegnata a mano, anche con ricevuta sottoscritta dal conduttore.

La comunicazione deve essere inviata al conduttore prima di esercitare l’opzione per la cedolare secca e, pertanto, in linea generale, prima di procedere alla registrazione del contratto ovvero prima del termine di versamento dell’imposta di registro per le annualità successive. Qualora, in sede di proroga, il locatore confermi l’opzione per la cedolare secca, dovrà rinunciare, con le medesime modalità, agli aggiornamenti del canone anche per il periodo di durata della proroga.

La comunicazione non è richiesta per i contratti di locazione nei quali è espressamente prevista una clausola di rinuncia agli aggiornamenti del canone e per i contratti di durata complessiva nell’anno inferiore a 30 giorni. Infatti, in relazione a tali contratti di breve durata, per i quali non vige l’obbligo della registrazione in termine fisso, non opera il meccanismo di aggiornamento del canone (circolare 20/E del 4 giugno 2012, paragrafi 8 e 9).

Si ricordi, infine, che le disposizioni concernenti la sospensione della facoltà di chiedere gli aggiornamenti del canone e la relativa comunicazione non sono suscettibili di modifiche in via convenzionale tra le parti (articolo 3, comma 11, ultimo periodo, Dlgs 23/2011).

Chi paga le spese di registrazione dell’affitto? chiarimento sulla differenza fra obbligo di registrazione in capo al proprietario e compartecipazione nel pagamento delle imposte sulla registrazione contrattuale etc…

 

Chi paga le spese di registrazione dell’affitto?

Tasse per l’affitto: il pagamento dell’imposta di registro dovuta all’agenzia delle Entrate spetta per metà al padrone di casa e per l’altra metà all’inquilino.

Se hai intenzione di firmare un contratto di affitto, nel valutare la convenienza dell’appartamento avrai probabilmente considerato anche l’impatto fiscale: difatti, a meno che tu non voglia incorrere nelle gravi conseguenze giuridiche di un affitto in nero, c’è sempre da pagare la registrazione del contratto. Non è solo una questione di carattere tributario e di evasione delle tasse: un contratto di affitto non “dichiarato al fisco” è come se non fosse mai stato firmato neanche per il diritto civile.

Ma chi deve pagare le spese di registrazione? È possibile fare in modo che tali importi vengano pagati solo dal padrone di casa o che questi le addossi interamente all’inquilino? Ecco la risposta.

Se materialmente spetta al padrone di casa provvedere alla registrazione del contratto di affitto – cosa che deve fare necessariamente e non oltre 30 giorni dalla sottoscrizione della scrittura privata – le spese dell’imposta di registro devono essere divise per metà tra conduttore e locatore. In pratica, la tassa grava al 50% sul padrone di casa e per l’altra metà sull’inquilino. A stabilirlo è la stessa legge che regola il contratto di locazione [1].

Il contratto di affitto può derogare a tale regola sulla ripartizione delle spese, ma solo in modo più sfavorevole al locatore e mai all’inquilino. Ad esempio, è possibile addossare tutto il pagamento della registrazione sul padrone di casa, senza alcun obbligo economico a carico dell’inquilino. Non è invece possibile il contrario: è infatti nullo il patto con cui il padrone di casa, nel contratto di affitto, stabilisce che i costi della registrazione debbano essere sostenuti integralmente dall’affittuario. Quindi, in tal caso, se anche l’inquilino dovesse firmare una simile clausola con il contratto, potrebbe poi, in un successivo momento, rifiutarsi di pagare.

Attenzione però: se la divisione delle spese di registrazione del contratto è una questione che regola i rapporti tra padrone di casa e affittuari, nei confronti del fisco valgono regole completamente diverse. Difatti, come sostenuto più volte dall’Agenzia delle Entrate [2], locatore e conduttore restano solidalmente responsabili dell’assolvimento dell’imposta. Detto in termini pratici, al di là di ciò che è stato previsto nel contratto di affitto (addebito del 100% dell’imposta sul locatore o al 50% su entrambe le parti), in caso di mancata registrazione l’Agenzia delle Entrate può chiedere il pagamento a tutti e due i soggetti. Può cioè inviare l’accertamento tanto all’inquilino – chiedendogli tutto l’importo – quanto al padrone di casa. Ovviamente, chi paga l’importo potrà rivalersi, nei confronti dell’altra parte, nei limiti del 50%.

Ciò che abbiamo appena detto può sembrare in parte contraddittorio: difatti se è vero che, dal 2016, l’obbligo di eseguire la registrazione del contratto di affitto spetta al padrone di casa, che vi deve provvedere entro 30 giorni dalla sottoscrizione del contratto, perché mai l’inquilino ne dovrebbe rispondere? Per il fisco una cosa sono i rapporti civili, un’altra quelli tributari, per i quali vige la responsabilità solidale.

In ogni caso, la registrazione tardiva del contratto (purché entro un anno) consente una riduzione delle sanzioni fiscali che, altrimenti, verrebbero applicate in caso di evasione (è il cosiddetto meccanismo del ravvedimento operoso). Invece, da un punto di vista civilistico, il contratto non registrato resta sempre nullo.

Le spese di registrazione del contratto di affitto

Come abbiamo detto, se nulla dice il contratto di affitto, le spese per la registrazione sono per metà a carico del proprietario e metà dell’inquilino. In pratica per la registrazione si deve pagare:

  • 2% sul canone annuale + diritti di segreteria + Marche da bollo.

In ogni caso, spetta al locatore registrare il contratto – entro 30 giorni dalla firma – presso l’Agenzia delle Entrate. In caso di mancata registrazione, il contratto si considera inesistente e il mancato pagamento del canone non dà luogo a un procedimento di sfratto, ma solo a una causa ordinaria di occupazione senza titolo.

L’imposta di registro si applica in modo differente a seconda che il locatore sia un privato o soggetto passivo IVA secondo quanto di seguito illustrato.

I contratti di locazione di durata ultranovennale, devono essere trascritti nei registri immobiliari; in questo caso è dovuta anche l’imposta ipotecaria in misura fissa pari a 200 euro.

Ciò vale anche per la sublocazione.

Questa regola non si applica in caso di contratti formati per scrittura privata non autenticata (o verbali) di durata non superiore a 30 giorni complessivi nell’anno che sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso.

Cosa si rischia col fisco in caso di omessa registrazione dell’affitto?

In caso di omessa registrazione del contratto, si applica la sanzione ordinariamente prevista dal 120 al 240% dell’imposta dovuta. Tuttavia, se la richiesta di registrazione è effettuata con ritardo non superiore a 30 giorni, si applica la sanzione dal 60% al 120% dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di € 200.

In caso di omessa registrazione nel termine di 30 giorni da parte del locatore, il conduttore può chiedere al giudice di determinare le condizioni economiche del contratto.

Come si fa la registrazione del contratto di affitto?

La registrazione può essere effettuata, generalmente, presso l’Agenzia delle Entrate su supporto cartaceo, oppure in via telematica.

La modalità telematica è obbligatoria per:

  • i soggetti (parte del contratto) che possiedono almeno 10 unità immobiliari;
  • gli agenti immobiliari per i contratti formati per scrittura privata non autenticata e stipulati a seguito della loro attività per la conclusione degli affari.

La registrazione telematica può essere richiesta direttamente dalle parti oppure tramite commercialista o altro intermediario e deve essere effettuata utilizzando il software “Contratti di locazione e affitto di immobili (RLI)”.

Per la registrazione presso l’ufficio su supporto cartaceo le parti devono prima autoliquidare e versare l’imposta dovuta e, successivamente, richiedere la registrazione presentando presso un qualunque ufficio dell’Agenzia delle Entrate i seguenti documenti:

  • 2 copie con firma in originale del contratto (ed eventuali allegati) in bollo (per l’importo v. n. 54060; il contrassegno telematico deve avere data non successiva a quella del contratto). Nel caso di contratto verbale, questo è sostituito da denuncia redatta in doppio originale su modello dell’AE, sottoscritto anche da uno solo dei contraenti;
  • modello Registrazione Locazione Immobili (RLI), nel quale vanno riportate le informazioni sul contratto;
  • ricevuta di versamento dell’imposta effettuato con mod. F24 Elide oppure, in alternativa, modello di richiesta di addebito delle imposte di bollo e di registro sul proprio c/c utilizzando il modello richiesta di addebito su conto corrente bancario;
  • in caso di richiesta di registrazione di più contratti, il mod. RR.

Tali modelli sono reperibili sul sito o presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate.

In caso di opzione per la cedolare secca, che va indicata nel modello di registrazione, non sono dovute l’imposta di registro né quella di bollo.

A quanto ammontano le spese di registrazione dell’affitto?

L’imposta dovuta per la registrazione non può essere inferiore al minimo di € 67,00 e l’importo deve essere arrotondato all’unità di eruo per difetto se la frazione è inferiore a 50 centesimi e per eccesso negli altri casi.

I titolari di partita IVA che utilizzano il mod. F24 devono versarlo in via telematica.

I codici tributo più ricorrenti sono:

– prima registrazione: 1500

– annualità successive: 1501

– cessione del contratto: 1502

– risoluzione: 1503

– proroghe: 1504

– imposta di bollo: 1505

– tributi speciali e compensi: 1506.

Agevolazioni fiscali per l’inquilino

Agevolazioni fiscali sono previste anche per il conduttore; infatti, se il contratto ha per oggetto un’unità immobiliare adibita ad abitazione principale, al conduttore spetta una detrazione, rapportata al periodo dell’anno durante il quale sussiste tale destinazione, pari a:

  • euro 495,80 se il reddito complessivo non supera euro 15.493,71;
  • euro 247,90 se il reddito complessivo supera euro 15.493,71 ma non euro 30.987,41.

Se in corso di locazione interviene una modifica, in più o in meno, dell’imposizione fiscale sull’immobile oggetto del contratto, rispetto a quella in atto al momento della stipula, la parte interessata può, se non riesce ad accordarsi con l’altra, adìre la Commissione di conciliazione stragiudiziale affinché provveda, nel termine perentorio di novanta giorni dalla richiesta, a determinare il nuovo canone.

Se non posso pagare il mutuo e vendo la prima casa perdo il bonus?

 

Se non posso pagare il mutuo e vendo la prima casa perdo il bonus?

 

Chi non riesce a pagare il mutuo perché ha perso il lavoro ed è costretto a vendere l’appartamento perde il beneficio fiscale sulla prima casa?

Chi acquista la prima casa e usufruise dell’agevolazione fiscale prevista dalla legge [1] ha l’obbligo di non vendere o donare l’immobile per i primi cinque anni dall’acquisto, salvo che vi sia una causa di forza maggiore o che, entro un anno dalla cessione, acquisti un altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Di recente la Cassazione [2] ha chiarito che la «forza maggiore» può consistere anche nell’impossibilità di pagare il mutuo alla banca, circostanza che costringa il contribuente a vendere la casa precedentemente acquistata col bonus. Ma procediamo con ordine.

In cosa consiste il bonus prima casa?

Il cosiddetto «bonus prima casa» è una detrazione fiscale che spetta a chi acquista un immobile non di lusso da adibire a propria residenza. Esso dà diritto a un notevole risparmio di imposta consistente nei seguenti benefici:

  • se la casa viene acquistata da un privato, l’imposta di registro, anziché essere del 9% del valore dell’immobile è del 2% (se si tratta di un acquisto mediante leasing, l’imposta scende all’1,5%);
  • se la casa viene acquistata da un costruttore, l’Iva è al 4% e non al 10%.

A quali condizioni è possibile ottenere il bonus prima casa?

La legge impone una serie di rigide condizioni per ottenere l’agevolazione fiscale sull’acquisto della prima casa:

  • la casa non deve essere di lusso; non deve cioè essere classificato come A/1, A/8 e A/9 (categorie riguardanti gli immobili di maggior pregio) o A/10 (uffici);
  • la casa deve essere situata nel Comune ove il contribuente ha già la propria residenza anagrafica (o, se ancora non ce l’ha, ha l’obbligo di trasferirvela entro 18 mesi dalla data dell’acquisto); o nel Comune ove svolge il proprio lavoro o ha lo studio; oppure in qualsiasi Comune in Italia se si tratta di contribuente italiano emigrato all’estero;
  • il contribuente non deve essere titolare esclusivo (o in comunione con il coniuge) di altra casa (in proprietà o in usufrutto) nel Comune in cui è situata la casa oggetto di tale acquisto agevolato;
  • il contribuente non deve essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale, in tutta Italia, di altra casa di abitazione (in proprietà, in usufrutto, in nuda proprietà) acquistata da lui o dal suo coniuge con il «bonus prima casa». Qualora il contribuente dovesse essere già proprietario di un’altra abitazione, acquistata con l’agevolazione «prima casa» deve vendere la casa già posseduta entro un anno dalla data del nuovo acquisto agevolato;
  • la nuova casa non deve essere venduta o donata entro 5 anni, ma se la si vende è possibile non perdere il bonus prima casa se si acquista, entro 1 anno dalla suddetta cessione, un’altra casa da adibire ad abitazione di residenza principale.

Se si vende la casa per necessità

Analizziamo meglio l’ultimo dei requisiti, quello del divieto di cessione dell’immobile. Secondo la Cassazione ben è possibile la cessione se sussiste una causa di forza maggiore. Tale può essere la perdita del lavoro: lo stato di disoccupazione, che comporti l’impossibilità di pagare il mutuo alla banca, e costringa il contribuente a cedere l’immobile, non fa venire meno i bonus. Ma attenzione: non basta la semplice collocazione in cassa integrazione; è infatti necessario uno stato di oggettiva impossibilità economica. Nel caso di specie, la Corte ha respinto il ricorso di un contribuente il quale era stato messo momentaneamente a riposo: secondo i giudici, infatti, non è una causa di forza maggiore il collocamento in Cig temporanea, a maggior ragione se il contribuente non dimostra che con i minori introiti risulta impossibile pagare il mutuo. Il caso della cassa integrazione applicata al contribuente non costituisce dunque una causa di forza maggiore (la Cig era infatti temporanea e non era stato dimostrato che il minor introito avrebbe potuto rendere impossibile il pagamento del mutuo).

note

[1] Art. 1, nota II bis, co. 4, Parti I della Tariffa allegata al Dpr n. 131/1986: II-bis) 1.

«Ai fini dell’applicazione dell’aliquota del 2 per cento agli atti traslativi a titolo oneroso della proprieta’ di case di abitazione non di lusso e agli atti traslativi o consuntivi della nuda proprieta’, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione relativi alle stesse, devono ricorrere le seguenti condizioni:

a) che l’immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attivita’ ovvero, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attivita’ il soggetto da cui dipende ovvero, nel caso in cui l’acquirente sia cittadino italiano emigrato all’estero, che l’immobile sia acquisito come prima casa sul territorio italiano. La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel comune ove e’ ubicato l’immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto;

b) che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprieta’, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui e’ situato l’immobile da acquistare;

1- c) che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprieta’, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprieta’ su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni di cui al presente articolo ovvero di cui all’articolo 1 della legge 22 aprile 1982, n. 168, all’articolo 2 del decreto-legge 7 febbraio 1985, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 aprile 1985, n. 118, all’articolo 3, comma 2, della legge 31 dicembre 1991, n. 415, all’articolo 5, commi 2 e 3, dei decreti-legge 21 gennaio 1992, n. 14, 20 marzo 1992, n. 237, e 20 maggio 1992, n. 293, all’articolo 2, commi 2 e 3, del decreto-legge 24 luglio 1992, n. 348, all’articolo 1, commi 2 e 3, del decreto-legge 24 settembre 1992, n. 388, all’articolo 1, commi 2 e 3, del decreto-legge 24 novembre 1992, n. 455, all’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 1993, n. 75 e all’articolo 16 del decreto-legge 22 maggio 1993, n. 155, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 243.

2- In caso di cessioni soggette ad imposta sul valore aggiunto le dichiarazioni di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1, comunque riferite al momento in cui si realizza l’effetto traslativo possono essere effettuate, oltre che nell’atto di acquisto, anche in sede di contratto preliminare.

3- Le agevolazioni di cui al comma 1, sussistendo le condizioni di cui alle lettere a), b) e c) del medesimo comma 1, spettano per l’acquisto, anche se con atto separato, delle pertinenze dell’immobile di cui alla lettera a). Sono ricomprese tra le pertinenze, limitatamente ad una per ciascuna categoria, le unita’ immobiliari classificate o classificabili nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, che siano destinate a servizio della casa di abitazione oggetto dell’acquisto agevolato.

4- In caso di dichiarazione mendace, o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonche’ una sovrattassa pari al 30 per cento delle stesse imposte. Se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonche’ irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima. Sono dovuti gli interessi di mora di cui al comma 4 dell’articolo 55 del presente testo unico. Le predette disposizioni non si applicano nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato con i benefici di cui al presente articolo, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale».

[2] Cass. sent. n. 678/17 del 12.01.2017.

venerdì 27 gennaio 2017

Richiedere un mutuo usufruendo del fondo di garanzia dello Stato

 

mutuo con fondo di garanzia

Il mutuo con il Fondo di garanzia è un’importante opzione per i giovani, ma vediamo che cos’è e chi ne può usufruire. La casa è il bene più amato dagli italiani e anche il più difficile da acquistare specie per le categorie che hanno più difficoltà ad accendere un mutuo, soprattutto per chi non ha un lavoro fisso o ha contratti atipici. Oggi il Fisco fornisce una serie di benefici e agevolazioni per chi si appresta ad acquistare l’abitazione principale, in primo luogo la cosiddetta agevolazione prima casa.

Accendere un mutuo con il Fondo di garanzia

Chi non ha abbastanza liquidità per comprare casa una delle strade da percorrere è quella di accendere un mutuo ma la precarietà dei contratti di lavoro rende difficile specie per i giovani accendere un finanziamento con una banca non potendo offrire garanzie adeguate. Ed è per questa esigenza che nasce il Fondo di garanzia per l’acquisto della prima casa che permette di chiedere mutui ipotecari per un importo fino a 250mila euro avvalendosi delle garanzie offerte dallo Stato che coprono metà dell’importo. Il Fondo di garanzia è stato istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze e offre garanzie statali pari al 50% della quota capitale del mutuo richiesto per acquistare la prima casa.

Chi e come può accendere un mutuo con il Fondo

Possono accedere al Fondo:

  • le giovani coppie di cui almeno uno dei due componenti non abbia superato i 35 anni di età
  • giovani di età inferiore ai 35 anni che siano titolari di un rapporto di lavoro atipico
  • nuclei familiari monogenitoriali con figli minori
  • soggetti che vivono in alloggi di proprietà degli IACP, Istituti Autonomi Case Popolari.

Accedendo al Fondo, la banca garantita dallo Stato non può richiedere al richiedente il mutuo ulteriori garanzie personali come ad esempio quelle dei genitori o parenti, oltre all’ipoteca e all’eventuale assicurazione.

Per quali immobili si può chiedere l’accesso al Fondo? Deve trattarsi della prima casa, intesa come l’abitazione principale in cui si risiede insieme alla propria famiglia, e non deve avere le caratteristiche di lusso (A1, A8 e a9). Caratteristica peculiare per poter chiedere l’accesso alla garanzia del Fondo è quella di non essere proprietari di altri immobili ad uso abitativo salvo quello ottenuti per successione a causa di morte e che siano in uso a titolo gratuito a  genitori o fratelli.

Come si accede al Fondo di garanzia? Va presentata una domanda direttamente alla banca che aderisce all’iniziativa  e il ci elenco si trova sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze. La banca fornirà l’apposita modulistica da compilare oppure basterà scaricarla dal sito della banca o del Ministero. (www.dt.mef.gov.it).

Tassi mutui ancora in calo

Chi vuol accendere un mutuo puo' approfittare dei tassi di interesse sui nuovi mutui, che a dicembre hanno nuovamente toccato il minimo storico. Secondo il  bollettino mensile dell'Abi, infatti, a dicembre i tassi sui finanziamenti per l'acquisto di abitazioni si sono attestati al 2,02%. A fine 2007 erano al 5,72%.

Il tasso medio sulle nuove operazioni per acquisto di abitazioni si è attestato al 2,02%, nuovo minimo storico (2,05% a novembre 2016 e 5,72% a fine 2007). Sul totale delle nuove erogazioni di mutui circa i due terzi sono mutui a tasso fisso.

Sulla base degli ultimi dati relativi a novembre 2016, L’ammontare totale dei mutui concessi alle famiglie ha registrato una variazione positiva di +1,7% rispetto a novembre 2015 (quando già si manifestavano segnali di miglioramento).

Sofferenze bancarie in calo

Secondo il rapporto Abi le sofferenze nette (cioè al netto delle svalutazioni già effettuate dalle banche con proprie risorse) a fine novembre 2016 si collocano a 85,2 miliardi di euro, un valore in ulteriore lieve diminuzione rispetto al dato di ottobre (85,5 miliardi). Si conferma la riduzione di oltre il 4% delle sofferenze nette rispetto al picco di 89 miliardi di fine novembre 2015

Mutui: tra tassi e nuove tutele, le novità del 2017 per chi vuol acquistare casa

 

Il 2017 appena iniziato porterà importanti novità per chi vuol accendere un mutuo. Dalle nuove tutele per i consumatori ai cambiamenti che potrebbero interessare i tassi di interesse. Vediamo quali sono gli scenari che si aprono per gli aspiranti mutuatari secondo l’analisi dei portali mutui.it e facile.it.

  • Nuove tutele per I consumatori: sono entrate in vigore a luglio, ma operative sono da poche settimane, le norme contenute nel decreto attuativo della direttiva europea sui mutui. Sul cammino di una sempre maggiore trasparenza del rapporto tra mutuatario e banca, sarà obbligo di quest’ultima fornire un “prospetto informative europeo standardizzato” che garantisca la possibilità di confrontare le diverse offerte presenti sul mercato.
  • Tassi di interesse – La Bce ha confermato di voler continuare con il programma di Qe e di tassi ai minimi, una situazione che potrebbe continuare a tenere bassi anche I tassi di interesse sui finanziamenti per l’acquisto di una casa. Ma secondo gli esperti, a fronte di un euribor che dovrebbe rimanere basso ancora per un paio di anni, si sta già assistendo a una lenta risalita dell’Euris a dieci anni (il paramentro di riferimento per i mutui a tasso fisso) che ha guadagnato da luglio oltre 40 punti base.
  • Inoltre va considerate ciò che sta accadento in America, dove la Fed ha deciso un rialzo del costo del denaro, che insieme all’elezione di Trump e alla probabile politica espansiva che ne deriverà, potrebbe avere un effetto contagio anche in Europa e portare a politiche più restrittive (e quindi a un rialzo dei tassi) anche nel vecchio continente. Da quest’anno probabile anche un ritocco al rialzo degli spread applicati dalle banche, con conseguente frenata del mercato delle surroghe.
  • Resta in vigore anche quest’anno, perché prorogato dalla legge di stabilità, il fondo mutui giovani coppie, nato già nel 2011 e che consente l’accesso a un mutuo agevolato alle coppie sposate o coppie di fatto con almeno un componente minore di 35 anni. Accesso al credito anche a chi non ha un lavoro a tempo indeterminato grazie alla garanzia statale sul 50% della quota capitale del finanziamento richiesto.

lunedì 23 gennaio 2017

Mutui, Crif: nel 2016 cresce ancora la richiesta, ma non si colma il divario con il periodo pre-crisi

Se nel mese di dicembre la richiesta di nuovi mutui e surroghe ha raggiunto un incremento pari al 21,3%, il dato aggregato del 2016 parla di un aumento del 13,3% rispetto all'aggregato 2015. Nel corso del 2016 si è quindi ulteriormente consolidato il trend positivo, sostenuto da prezzi di acquisto degli immobili residenziali e tassi di interesse applicati sui nuovi mutui che si sono mantenuti appetibili per l’intero anno.

Secondo la consueta analisi del Barometro Crif, sull'andamento delle richieste di nuovi mutui e surroghe, cresce ulteriormente la richiesta di nuovi mutui, tanto a dicembre - che registra uno dei dati migliori dell'anno, che nell'intero 2016. Tuttavia, se si confronta l’aggregato del 2016 con gli anni precedenti permane ancora un piccolo gap da colmare rispetto al biennio 2009-2010, ovvero prima che la crisi economica raffreddasse l’interesse delle famiglie nei confronti dell’investimento sulla casa.

Importo medio richiesto

Ulteriore segnale positivo emerge anche dall’analisi dell’importo medio relativo alle richieste di nuovi mutui e surroghe interrogate sul SIC di CRIF, che nel mese di dicembre si è attestato a 125.360 Euro, superiore del +2,5% rispetto a quello registrato nel corrispondente mese dell’anno precedente. 

Più in generale, nel 2016 si è arrestato il trend di costante contrazione dell’importo medio richiesto che aveva caratterizzato il comparto fin dal 2010, che è risultato pari a 123.324 Euro, con un seppur lieve incremento del +0,9% rispetto al 2015. Nell’immediato sembra però difficile un ritorno agli importi pre-crisi, se si considera che nel biennio 2009-2010 l’importo medio richiesto si aggirava intorno ai 136.000 Euro

mercoledì 18 gennaio 2017

Mancata proroga cedolare secca: non si perde l’opzione

 

In caso di mancata presentazione del modello RLI per la proroga del contratto di locazione con cedolare secca non si perde l’opzione, ma sono previste sanzioniIn caso di mancata presentazione della comunicazione relativa alla proroga del contratto di locazione il locatore non perde il diritto all’opzione della cedolare secca nel caso in cui abbia manifestato un comportamento coerente con la volontà di mantenere l’opzione, effettuando i relativi versamenti e indicando i redditi soggetti a cedolare nella sua dichiarazione.
Dovrà comunque pagare una sanzione per l’inadempienza pari a 50 euro se presenta il modello RLI con un ritardo non superiore a 30 giorni e 100 euro per un ritardo superiore a 30 giorni.

A prevederlo è il decreto fiscale n. 193 del 2016, convertito dalla legge n. 225 del 2016. Una novità positiva per i locatori che dimenticano di presentare il modello RLI entro 30 giorni dalla scadenza del contratto per comunicare all’Agenzia delle Entrate la proroga e la conferma dell’opzione. Riepiloghiamo dunque le principali caratteristiche e gli adempimenti collegati al contratto di locazione con cedolare secca.

Cedolare secca: come funziona

L’opzione della cedolare secca consente di accedere a un regime contributivo che non prevede il pagamento dell’Irpef, delle imposte addizionali e dell’imposta di registro e di bollo per la registrazione, proroga o risoluzione di contratti di locazione. In caso di contratto di affitto con cedolare secca è invece dovuta un’imposta sostitutiva calcolata sul canone di locazione concordato tra le parti, con un’aliquota pari al 21%. Si applica un’aliquota del 15%, ridotta al 10% nel periodo 2014/2017, per i contratti a canone concordato – 3+2 - relativi ad abitazioni ubicate in comuni con carenze abitative, ad alta tensione abitativa o sottoposti a stato di emergenza a seguito di calamità.

Il contratto di locazione con opzione della cedolare secca può essere stipulato per gli affitti di immobili appartenenti alle categorie catastali dalla A1 alla A11, esclusa la categoria A10, ovvero gli uffici. Non può essere applicato ai contratti commerciali, ossia se il conduttore agisce nell’esercizio di impresa o libera professione.

Contratto di locazione cedolare secca: quando conviene

Stipulare un contratto di affitto con cedolare secca consente di pagare, come detto, un’imposta sostitutiva dell’Irpef con un’aliquota fissa. A tal proposito vale la pena ricordare che dal 1° gennaio 2013 è stato l’Irpef viene calcolata sul 95% del canone anziché sull’85%. Per i contratti di affitto a canone concordato la base imponibile è passata dal 59,5%, al 66,5%. I contratti di affitto con cedolare secca risultano dunque vantaggiosi per chi affitta numerosi immobili e ha elevati introiti annuali.

L’esercizio dell’opzione comporta però la rinuncia alla facoltà di aggiornare il canone di locazione – compresi gli eventuali adeguamenti Istat – e la rinuncia a beneficiare di ulteriori deduzioni e detrazioni. Andrà dunque valutata di caso in caso la convenienza di tale regime in base alla specifica situazione.

Registrazione e proroga contratto di locazione cedolare secca

L’opzione della cedolare secca può essere esercitata sia al momento della registrazione del contratto di locazione, sia nelle annualità successive, mediante il modello RLI. Vale in tutti i casi il limite di 30 giorni dall’avvio o dalla scadenza del contratto o dell’annualità. Le novità introdotte dal decreto fiscale consentono, come detto, di non perdere l’opzione in caso di mancata proroga, pagando una sanzione di 50 euro per ritardi inferiori a 30 giorni e di 100 euro per ritardi superiori, purché siano stati rispettati gli adempimenti necessari in sede di versamento delle imposte e di dichiarazione dei redditi.

Per i contratti non soggetti a obbligo di registrazione, ossia di durata complessiva nell’anno inferiore a 30 giorni, il locatore può indicare l’opzione della cedolare secca:

  • In sede di registrazione qualora decida di registrare volontariamente il contratto
  • Direttamente in sede di dichiarazione dei redditi se il contratto di locazione non è stato registrato

Per maggiori dettagli è possibile consultare la guida alla registrazione del contratto di locazione.

Cedolare secca: obbligo di comunicazione al conduttore

Il locatore che intende avvalersi della cedolare secca ha l’obbligo di inviare una preventiva comunicazione al conduttore con lettera raccomandata. In alternativa è possibile inserire nel contratto una specifica clausola con cui il locatore rinuncia all’aggiornamento dei canoni.
L’obbligo non si applica ai contratti di locazione brevi, di durata complessiva inferiore a trenta giorni nell’anno.

Contratto di locazione cedolare secca e pagamento imposta sostitutiva

Il versamento dell’imposta sostituiva dovuta in caso di affitto con cedolare secca va effettuato con modalità e scadenze analoghe a quelle dell’Irpef. È previsto quindi il pagamento mediante F24 di acconti e saldi. Per tutti i dettagli è possibile consultare la guida al pagamento della cedolare secca.

Revoca cedolare secca

La revoca della cedolare secca può essere effettuata in ciascuna annualità successiva a quella in cui si è scelto di optare per tale regime. La comunicazione va trasmessa entro 30 giorni dalla scadenza dell’annualità con modello RLI. in seguito alla revoca è in ogni caso possibile esercitare nuovamente l’opzione nelle annualità successive. Per tutti i dettagli è possibile consultare la guida alla revoca della cedolare secca.

Posso affittare un'abitazione per uso ufficio o un ufficio per uso abitazione, senza provvedere al cambio di destinazione d’uso?

Risultati immagini per affitto ufficio

Abbiamo più volte affrontato la questione rispondendo qua e là ai commenti dei nostri lettori che si sono trovati spesso, concretamente, in questa situazione. Molti uffici, infatti, presentano una struttura già adatta all'uso come abitazione, senza necessità di alcuna modifica strutturale. Così come ci sono abitazioni che potrebbero essere usate da professionisti per svolgere l'attività di medico o di ingegnere. Quindi se la pratica rende tali immobili intercambiabili, difatti, burocraticamente, è possibile utilizzare categorie catastali commerciali per scopi abitativi e/o viceversa?

Per rispondere a questo complesso "dilemma", abbiamo sviscerato l'argomento a più riprese per arrivare alla valutazione più corretta.
Di seguito il risultato: al di là della considerazione sulla praticità e la contingenza delle situazione, possiamo confermare che non si può (potrebbe) locare un'abitazione uso ufficio e che, nonostante si tratti di pratica diffusa, in realtà tale pratica non può essere considerata regolare.
In riferimento alla questione in oggetto, e cioè se si possa affittare per uso ufficio un immobile con destinazione catastale "abitativa" e, in generale, se sia ammissibile un contratto di locazione stipulato su un immobile per un uso diverso da quello proprio della categoria catastale di riferimento, occorre in primo luogo far presente che non è applicabile l'art. 19, comma 14, del DL 31 maggio 2010, n. 78 (che prevede l'allineamento tra destinazione d'uso e categoria catastale, a pena di nullità del contratto) per i seguenti motivi:
- la norma in oggetto fa riferimento ad "atti traslativi", laddove invece la locazione è un contratto privo di effetti traslativi;
- la norma in oggetto fa riferimento ai soli atti pubblici e scritture private autenticate tra vivi, non anche alle scritture private non autenticate, quali sono i contratti di locazione.
Di conseguenza non potrà applicarsi la sanzione della nullità, espressamente prevista dal comma 14.

Poiché non si può invocare il comma 14, ne discende che non si potrà neanche far riferimento alla circolare n. 2/2010 dell'Agenzia del Territorio, in quanto quest'ultima ha fornito chiarimenti interpretativi proprio in merito al comma 14, e non anche ad altre disposizioni.
Ciò nonostante, il mancato allineamento non andrà esente da conseguenze.
Infatti, è sicuramente applicabile il successivo comma 15 dell'art. 19, secondo cui "la richiesta di registrazione di contratti, scritti o verbali, di locazione o affitto di beni immobili esistenti sul territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni o proroghe anche tacite, deve contenere anche l'indicazione dei dati catastali degli immobili. La mancata o errata indicazione dei dati catastali è considerato fatto rilevante ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro ed è punita con la sanzione prevista dall'articolo 69 del decreto del presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131".
Si potrebbe obiettare che per "errata indicazione dei dati catastali" il Legislatore abbia inteso far riferimento al solo errore di trascrizione dei dati corretti nel contratto (cd. errore materiale), e non al mancato allineamento dei dati catastali all'uso contrattualmente pattuito; ma sarebbe altrettanto irragionevole e illogico sostenere che il Legislatore non abbia previsto alcuna sanzione nel caso, grave, in cui il proprietario in mala fede abbia utilizzato una categoria catastale per un uso diverso da quello consentito, sottraendosi così anche ai suoi obblighi fiscali (non a caso, diversi tributi locali sono calcolati in base alla diversa destinazione d'uso, ad es. IMU, TARI ecc.).

Ciò significa che:
• il proprietario rischia di incorrere nella sanzione di cui all'articolo 69 del DPR 131/1986, ovvero la sanzione amministrativa dal 120% al 240% dell'importo dell'imposta di registro dovuta in caso di mancata o errata/inesatta indicazione dei dati catastali nel contratto di locazione.

L'efficacia della norma in questione decorre dal 1° luglio 2010: ciò che occorre considerare non è la data di stipula del contratto ma è la data in cui esso viene presentato per la registrazione. La nuova norma concerne, inoltre, non solo la stipula di nuovi contratti, ma anche i contratti che hanno a oggetto la cessione, la risoluzione e la proroga di contratti di locazione e di affitto.
Tra l'altro, "per motivi di omogeneità e di razionalizzazione del sistema", l'Agenzia delle Entrate ha anche colto l'occasione per disporre in capo al contribuente adempimenti ulteriori rispetto a quelli imposti dal DL 78/2010: vale a dire che l'obbligo di indicazione dei dati di identificazione catastale degli immobili è stato disposto, oltre che per i contratti di locazione e di affitto, anche per i contratti di comodato.
A parte i profili sanzionatori, occorre anche segnalare che, qualora si conceda in affitto un immobile senza la previa segnalazione all'inquilino della categoria catastale, il proprietario potrebbe esporsi a contestazioni e addirittura alla risoluzione del contratto qualora l'inquilino dimostri che l'immobile, in base alla sua categoria catastale, risulti inidoneo all'uso pattuito.

In conclusione e in sintesi:
1. la destinazione a uso ufficio non è compatibile con un immobile abitativo;
2. ciò comporta che debba essere effettuata una variazione catastale;
3. qualora si stipuli un contratto prima dell'effettuazione della variazione (che comunque andrebbe effettuata quanto prima), è opportuno inserire una clausola in cui l'inquilino accetti la situazione di fatto esistente (in modo da evitare la risoluzione del contratto); impegnandosi in ogni caso a procedere quanto prima alla richiesta di variazione catastale;
4. qualora non si proceda in questa direzione, il Comune potrebbe, semplicemente incrociando il dato del contratto uso ufficio registrato con la categoria catastale abitativa (o ricevendo una segnalazione in tal senso da parte dell'Agenzia delle Entrate, ora accorpata con l'Agenzia del Territorio), rilevare un pagamento della TARI in difetto e in ogni caso richiedere la variazione catastale;
5. ugualmente, in caso di contestazione dell'omissione/errore, ci si esporrebbe ad una sanzione amministrativa che va dal 120% al 240% dell'importo dell'imposta di registro dovuta.

Mai così conveniente accendere un mutuo: tassi scendono al 2,02, oltre tre punti in meno al 2007

Chi vuol accendere un mutuo puo' approfittare dei tassi di interesse sui nuovi mutui, che a dicembre hanno nuovamente toccato il minimo storico. Secondo il  bollettino mensile dell'Abi, infatti, a dicembre i tassi sui finanziamenti per l'acquisto di abitazioni si sono attestati al 2,02%. A fine 2007 erano al 5,72%.

Il tasso medio sulle nuove operazioni per acquisto di abitazioni si è attestato al 2,02%, nuovo minimo storico (2,05% a novembre 2016 e 5,72% a fine 2007). Sul totale delle nuove erogazioni di mutui circa i due terzi sono mutui a tasso fisso.

Sulla base degli ultimi dati relativi a novembre 2016, L’ammontare totale dei mutui concessi alle famiglie ha registrato una variazione positiva di +1,7% rispetto a novembre 2015 (quando già si manifestavano segnali di miglioramento).

Sofferenze bancarie in calo

Secondo il rapporto Abi le sofferenze nette (cioè al netto delle svalutazioni già effettuate dalle banche con proprie risorse) a fine novembre 2016 si collocano a 85,2 miliardi di euro, un valore in ulteriore lieve diminuzione rispetto al dato di ottobre (85,5 miliardi). Si conferma la riduzione di oltre il 4% delle sofferenze nette rispetto al picco di 89 miliardi di fine novembre 2015.

martedì 17 gennaio 2017

Mutui: tra tassi e nuove tutele, le novità del 2017 per chi vuol acquistare casa

 

Il 2017 appena iniziato porterà importanti novità per chi vuol accendere un mutuo. Dalle nuove tutele per i consumatori ai cambiamenti che potrebbero interessare i tassi di interesse. Vediamo quali sono gli scenari che si aprono per gli aspiranti mutuatari secondo l’analisi dei portali mutui.it e facile.it.

  • Nuove tutele per I consumatori: sono entrate in vigore a luglio, ma operative sono da poche settimane, le norme contenute nel decreto attuativo della direttiva europea sui mutui. Sul cammino di una sempre maggiore trasparenza del rapporto tra mutuatario e banca, sarà obbligo di quest’ultima fornire un “prospetto informative europeo standardizzato” che garantisca la possibilità di confrontare le diverse offerte presenti sul mercato.
  • Tassi di interesse – La Bce ha confermato di voler continuare con il programma di Qe e di tassi ai minimi, una situazione che potrebbe continuare a tenere bassi anche I tassi di interesse sui finanziamenti per l’acquisto di una casa. Ma secondo gli esperti, a fronte di un euribor che dovrebbe rimanere basso ancora per un paio di anni, si sta già assistendo a una lenta risalita dell’Euris a dieci anni (il paramentro di riferimento per i mutui a tasso fisso) che ha guadagnato da luglio oltre 40 punti base.
  • Inoltre va considerate ciò che sta accadento in America, dove la Fed ha deciso un rialzo del costo del denaro, che insieme all’elezione di Trump e alla probabile politica espansiva che ne deriverà, potrebbe avere un effetto contagio anche in Europa e portare a politiche più restrittive (e quindi a un rialzo dei tassi) anche nel vecchio continente. Da quest’anno probabile anche un ritocco al rialzo degli spread applicati dalle banche, con conseguente frenata del mercato delle surroghe.
  • Resta in vigore anche quest’anno, perché prorogato dalla legge di stabilità, il fondo mutui giovani coppie, nato già nel 2011 e che consente l’accesso a un mutuo agevolato alle coppie sposate o coppie di fatto con almeno un componente minore di 35 anni. Accesso al credito anche a chi non ha un lavoro a tempo indeterminato grazie alla garanzia statale sul 50% della quota capitale del finanziamento richiesto. 

Nuove agevolazioni mutuo prima casa: scopri come funzionano!

 

Con il nuovo Fondo di Garanzia per la prima casa - reso operativo dall’accordo tra l’ABI e il MEF - il 50% dell’importo del mutuo potrà essere garantito dallo Stato. Questa garanzia può facilitare l’operazione, estendendo di fatto la possibilità di ottenere un mutuo anche a soggetti che altrimenti verrebbero ritenuti poco solvibili. In pratica oggi hai un’opportunità concreta in più!
http://www.bancacarim.it/mutui_e_fina...

https://www.youtube.com/watch?v=96bWAUVeqoI

domenica 15 gennaio 2017

Come verificare se il mutuo ha un tasso di usura?

Come verificare se il mutuo ha un tasso di usura?

Bisogna leggere bene il contratto prima di firmarlo e verificare che i tassi di interesse e di mora siano sotto il tasso soglia. A che cosa si ha diritto?

O si ha la vista buona o ci vogliono gli occhiali spessi, oltre al tempo e la pazienza. L’unico modo di verificare se il mutuo ha un tasso di usura è leggere per bene il contratto che si firma con la banca. La lettera piccola, ecco: proprio quella lì. Nel contratto del mutuo, nel capitolato e nelle condizioni generali c’è scritto quanto c’è da pagare di interessi per il mutuo richiesto. Se questo tasso di interesse non rispetta i limiti stabiliti, il cliente deve sapere che ha diritto a due cose: la ridefinizione del tasso applicato e la restituzione di quello che è stato pagato di troppo. Ce ne sarebbe una terza: chiedere il risarcimento di eventuali danni, sia in sede civile sia in sede penale quando si avverte che ci siano i presupposti per il reato di usura. Mai avere paura della banca: quando si deve rivendicare un diritto non è il caso di tirarsi indietro.

Quando il mutuo ha un tasso di usura?

La legge [1] impone che il calcolo degli interessi sul mutuo venga fatto sulla media dei tassi rilevati trimestralmente dal Ministero del Tesoro. C’è, comunque, una soglia che ha un “prima” e un “dopo”. Il punto intermedio è fissato al 14 maggio 2011, data in cui è entrato in vigore il decreto legge che ha modificato la soglia in questione [2]. Fino a quel giorno, i tassi si calcolano aumentando della metà quelli medi pubblicati dal Ministero. Da quel giorno in poi, si calcolano aumentando del 25% e aggiungendo il 4%. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere, comunque, superiore a 8 punti percentuali.

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Tutto ciò che eccede da questi valori è da considerare un tasso di usura.

Badate bene: il tasso effettivo globale medio è verificabile anche sul sito della Banca d’Italia che, ogni tre mesi, pubblica il tasso medio a cui è possibile scambiare denaro.

Tassi di usura sul mutuo: cosa dice la Cassazione

Per la Corte di Cassazione, la questione chiave è il momento in cui gli interessi sono promessi o convenuti a qualsiasi titolo [3]. Ma la Suprema Corte si spinge oltre e sostiene  che, se sul contratto viene pattuito un interesse di mora superiore al tasso usuraio in quel momento in vigore, «la clausola è nulla e non sono dovuti interessi», come dettato dal Codice civile [4].

Non è un dettame da poco: perché, non a caso, le banche che hanno mangiato la foglia hanno inserito nei contratti di mutuo clausole del tipo: «Gli interessi di mora sono determinati nella misura annua pari al tasso applicato al mutuo, maggiorato di un tot di punti percentuali, fermo restando che la misura di tali interessi, nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, non potrà mai essere superiore al limite fissato dalla legge, dovendosi intendere, in caso di teorico superamento di detto limite, che la loro misura sia pari al limite medesimo».

Questa è una delle clausole fondamentali da leggere sul contratto (con la vista buona o con gli occhiali spessi) per verificare se il mutuo ha un tasso di usura. Se questa clausola non c’è, il tasso di mora può essere applicato nei modi più diversi. E l’importante è stabilire che sia il tasso di interesse sia il tasso di mora, al momento della stipula del contratto, siano sempre e comunque sotto il tasso soglia.

[1] Art. 2, legge n. 108/1996.

[2] Dl n. 70/2011.

[3] Cass. sent. n. 350/2013.

[4] Art. 1815 cod. civ.

Che cosa determina l’usura bancaria sui mutui

Che cosa determina l’usura bancaria sui mutui

Tan, Taeg, Tegm, tasso di mora: una miscela di interessi che, se supera la soglia stabilita ogni trimestre, sconfina nell’usura. Vediamo come e che cosa fare.

L’usura è un reato [1] che consiste nel superare le soglie stabilite dalla Banca d’Italia sui tassi di interesse richiesti per prestiti e finanziamenti, quindi anche per i mutui per l’acquisto della casa. Questi tassi massimi, o tassi di soglia, vengono fissati ogni tre mesi con due valori: uno per il mutuo a tasso fisso e l’altro per il mutuo a tasso variabile. Se queste soglie vengono superate, il cliente ha diritto al rimborso degli interessi.

Si possono distinguere due tipi di usura bancaria:

  • l’usura originaria, che si determina al momento della stipula del mutuo e quindi in base alle condizioni del contratto. In questo caso, il finanziamento è da considerare parzialmente nullo, in quanto la clausola degli interessi non è valida: quelli pagati vanno restituiti e quelli mancanti non vanno pagati;
  • l’usura sopravvenuta, che si manifesta durante la restituzione del mutuo: al momento della stipula del contratto è tutto regolare ma successivamente il tasso diventa usuraio perché la soglia è più bassa. In questo caso vanno restituiti al cliente gli interessi pagati in più rispetto alla soglia di usura del trimestre [2].

Vediamo, a questo punto, che cosa determina l’usura bancaria sui mutui.

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Tassi d’interesse sul mutuo: Tan e Taeg

Il primo passo per sapere che cosa determina l’usura bancaria sul mutuo è capire che cosa si paga ogni mese alla banca. La rata del mutuo è composta da due elementi: la quota di capitale ricevuto in prestito da restituire ed il tasso di interesse applicato su quel capitale. Il tasso di interesse è dato dal Tan (Tasso annuo nominale) e dal Taeg (Tasso annuo effettivo globale). Il valore di queste due sigle combinate varia, principalmente, a seconda dell’istituto che concede il credito, dell’entità del mutuo, delle capacità economiche del richiedente e della durata del contratto. In ogni caso, se quel tasso di interesse – o uno solo dei due che lo compongono –  supera la soglia stabilita dalla Banca d’Italia, si può essere di fronte ad un caso di usura bancaria.

Usura sul mutuo: attenzione anche al Tegm

C’è un altro fattore che può determinare l’usura bancaria sul mutuo. Si tratta del Tegm, cioè del Tasso effettivo globale medio. Rappresenta il valore medio dell’operazione di credito e comprende anche gli oneri accessori del mutuo. Nel calcolo del Tegm vengono considerati questi elementi:

  • interessi corrispettivi;
  • interessi di mora;
  • assicurazione ed altre spese connesse al credito;
  • penale di estinzione anticipata e/o di risoluzione anticipata.

Un esempio: ci sono 5 banche che concedono il prestito. Una applica un tasso di interesse bancario con il Taeg al 10%, un’altra all’11%, e le altre al 12%, 13% e 14%. La somma di tutti questi valori è il 60%. Per ottenere il tasso medio, dividiamo questo valore per 5, quanti sono gli istituti di credito. Il risultato è 12%, che sarà il Tegm, cioè l’altro tasso che, se supera le soglie stabilite, può determinare l’usura bancaria.

Naturalmente, come detto prima, questo valore può cambiare nel singolo istituto bancario da cliente a cliente ed in base alle condizioni contrattuali alla stipula del mutuo: se si tratta di un lavoratore a tempo indeterminato oppure senza busta paga, se si mette sul tavolo la cessione del quinto, ecc.

Da ricordare, inoltre, che la rata del mutuo comporta in modo inversamente proporzionale la restituzione del capitale ed il pagamento degli interessi. Per farla semplice: se pago 500 euro di rata, nei primi mesi pagherò 150 euro di capitale e 350 euro di interessi (è un esempio, facciamo cifre tonde per una più facile comprensione). Verso la fine del mutuo starò già pagando 350 euro di capitale e 150 di interessi. E’ il cosiddetto metodo di rimborso alla francese nei prestiti (come il mutuo) che hanno una durata considerevole. La banca si tutela così dal rischio di insolvenza del cliente.

Quando si determina l’usura bancaria sui mutui?

Detto ciò, è più facile spiegare quando il cliente che chiede un mutuo si trova di fronte ad un tasso vantaggioso oppure ad un caso di usura bancaria. Il calcolo viene effettuato in base alla percentuale del Taeg e del Tegm (ricordate il significato, vero?). Bene: se il Taeg ha una percentuale inferiore o, al massimo, pari al Tegm, il cliente si trova di fronte ad un tasso vantaggioso, perché in linea con quanto offerto sul mercato.

Viceversa, se il Taeg ha una percentuale superiore al Tegm, forse è il caso di cambiare banca: vuol dire che la media è stata superata.

Ci sono, però, due cose molto importanti da considerare quando si va a sottoscrivere un mutuo e si vuole evitare di cadere nella trappola dell’usura bancaria.

La prima: se, per qualsiasi motivo, si vuole accendere un mutuo a tasso fisso, conviene dare un’occhiata ai livelli di soglia già stabiliti. Nel senso: se la soglia massima del tasso di interesse è fissata al 5% e mi offrono un mutuo al 4,95% fisso per 10 anni (parliamo sempre di numeri esemplificativi), il tasso del mio mutuo diventerà usuraio non appena la Banca d’Italia abbasserà quella soglia al 4,85%. Conviene, quindi, trattare per ottenere un margine più ampio.

La seconda questione. Quando si parla di usura bancaria sui mutui non bisogna pensare soltanto ad un tasso di interesse stratosferico ma anche alla possibilità che una determinata banca applichi delle spese e delle commissioni esorbitanti sul finanziamento. Questo è un altro elemento importante che determina l’usura bancaria sui mutui.

Usura bancaria: il tasso di mora

Altro fattore da non trascurare per determinare l’usura bancaria sul mutuo è il tasso di mora, cioè l’interesse che mi viene applicato se non rispetto le scadenze dei pagamenti delle rate. La Corte di Cassazione [3] ha stabilito che il tasso di mora costituisce in effetti una parte integrante del Tegm e che, quindi, concorre alla somma del tasso. Il quale, però, dev’essere sempre inferiore al tasso di usura. Questo pronunciamento non tiene conto del fatto che i tassi di mora siano effettivamente applicati, o meno.

Che cosa fare se si determina l’usura bancaria sul mutuo

Se si avverte di essere stato vittima di usura bancaria sul mutuo e si vuole chiedere un risarcimento si deve, come prima cosa, presentare un reclamo formale alla banca per chiedere che vengano ricalcolati tutti gli interessi. L’istituto è tenuto a rispondere entro 30 giorni.

Se la risposta non arriva entro questo termine oppure non soddisfa il cliente, quest’ultimo si può rivolgere entro 12 mesi dalla presentazione del reclamo all’Arbitro bancario e finanziario (una pratica che costa 20 euro). Per cause entro i 100.000 euro, i tempi non superano di norma i 4 mesi.

Se il mutuatario la spunta, la banca deve rimborsargli gli interessi percepiti illecitamente. Ma il cliente potrebbe ottenere anche di non corrispondere la quota di interessi sulle rate residue. Se la banca non rispetta la decisione dell’Arbitro, il cliente ha la facoltà di avviare una causa in Tribunale.

[1] Art. 644 cod. pen.

[2] Cass. sent. n. 602/2013 e 603/2013.

[3] Cass. sent. n. 350/2013.

sabato 14 gennaio 2017

Spese di manutenzione dei balconi in condominio

Spese di manutenzione dei balconi in condominio

Le spese per riparare o conservare in buono stato i balconi condominiali sono a carico del proprietario o di tutti i condomini? Ecco cosa dice la legge.

Il riparto delle spese di manutenzione dei balconi in condominio dipende dalla funzione degli elementi che si vanno a riparare. Se la manutenzione riguarda una parte del balcone utile a tutto il fabbricato (perché serve da sostegno o è determinante per l’estetica del palazzo), allora tutti i condomini devono partecipare alle spese, in parti diverse a seconda dei millesimi. In caso contrario, e ciò vale soprattutto per i cosiddetti balconi aggettanti, sarà solo il proprietario ad accollarsi le spese di manutenzione. Spieghiamo tutto nel dettaglio e con chiarezza.

I due principali tipi di balcone

I balconi aggettanti non sono altro che quelli che vediamo ogni giorno per le strade della nostra città e che troviamo nel nostro appartamento: sono quelli che sporgono dal muro perimetrale dell’edificio, da cui il proprietario può affacciarsi ed esercitare il diritto di veduta. Sono quindi i classici balconi, aperti su tre lati. Da questi si distinguono i balconi incassati (o «a incasso»), ossia quelli realizzati a filo della facciata: essi non sporgono dal muro, anzi rientrano rispetto alla facciata stessa e sono aperti su un lato solo (quello frontale).

Le spese per i balconi aggettanti

Come sappiamo, nel condominio esistono parti comuni (cortile, ascensore, lastrico solare, ecc.) e parti che appartengono ad un solo condomino. La distinzione influisce sulle spese di manutenzione, perché per i beni comuni tutti i condomini vi dovranno partecipare, pagando in modo diverso a seconda dei millesimi di loro proprietà [1]. Questo principio esiste perché, dato che tutti utilizzano le parti comuni, è giusto che tutti concorrano alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria delle stesse.

Quanto ai balconi aggettanti, si sottolinea che essi (così come quelli incassati) non figurano nell’elenco delle parti comuni presente nel codice civile [2]. Secondo la Cassazione [3], i balconi aggettanti sono un prolungamento dell’unità immobiliare e appartengono esclusivamente al proprietario dell’appartamento (sul tema si legga anche Condominio: i balconi aggettanti sono di proprietà esclusiva).

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Tuttavia, vanno considerati beni comuni del condominio alcune parti del balcone stesso, ossia tutte quelle che hanno funzione decorativa e che influiscono sull’estetica complessiva dell’edificio (si tratta principalmente degli elementi presenti nella parte frontale e in quella inferiore del balcone, che contribuiscono ad elevare il decoro architettonico di tutto l’immobile condominiale). Di conseguenza, le spese per la manutenzione di questi elementi (rivestimenti, frontalini, cornici, fregi, ecc.) vanno ripartite tra tutti i condomini, perché l’intervento da effettuarsi andrà a vantaggio dell’intero stabile.

Al contrario, la manutenzione di quelle parti del balcone che non hanno una funzione decorativa spetta solo al proprietario dell’appartamento, che quindi deve sopportarne tutte le spese. È ovvio che la situazione va analizzata caso per caso. Di regola un elemento esterno del balcone contribuisce all’estetica di tutto il palazzo e, quindi, le spese di manutenzione sono a carico di tutti: se però il condominio dimostra che quell’elemento non è di alcuna utilità per lo stabile (né dal punto di vista architettonico, né da quello strutturale), allora le spese sono a carico del solo proprietario. Sul punto si legga anche Riparazione balconi aggettanti e tetti in condominio: chi paga.

Le spese per i balconi incassati

Per quanto riguarda i balconi incassati il discorso è diverso. Essi hanno una funzione di sostegno e copertura dell’edificio condominiale, e quindi sono al servizio dei piani sovrapposti dello stabile. Generalmente quindi, le spese di manutenzione sono a carico di tutti i condomini, perché garantiscono un vantaggio per tutti gli abitanti del fabbricato.

Essendo incassati nell’edificio e non un prolungamento dell’appartamento, ci troviamo quindi in una situazione opposta rispetto a quella dei balconi aggettanti: per i balconi a incasso è più facile che l’intervento di manutenzione riguardi l’interesse di tutto il condominio, che quindi è chiamato a concorrere alle spese. Se poi, ad esempio, si tratta di un intervento sulle parti interne del balcone, o sulla pavimentazione dello stesso, è chiaro che le spese spettano solo al proprietario dell’appartamento.

Le spese da ripartire col proprietario del piano inferiore

Che succede invece quando la manutenzione riguarda la soletta del balcone? La soletta è la parte inferiore del balcone, il prolungamento del solaio per l’inquilino del piano inferiore. Chi deve provvedere alla manutenzione di questo elemento? La soluzione è diversa a seconda che si parli di balconi aggettanti o di balconi incassati.

Per i balconi aggettanti, la Cassazione [4] ha stabilito che, anche se il balcone può avere funzione di copertura per il piano inferiore, tuttavia non è al servizio di entrambi gli appartamenti: esso non svolge una funzione indispensabile (di sostegno per esempio) per i piani sovrapposti. Le spese di manutenzione spettano quindi solo al proprietario.

Per i balconi incassati il discorso è opposto. La soletta è il prolungamento del solaio: serve a separare, coprire e sostenere i piani sovrapposti dello stabile condominiale. Questo elemento è un tutt’uno con il solaio presente tra un piano e l’altro: di conseguenza, secondo la legge, le spese di manutenzione spettano in parti uguali ai proprietari dei due appartamenti coinvolti [5]. Il solaio funge infatti da piano di calpestio per l’appartamento superiore e da soffitto per quello inferiore. Ciò non accade per la soletta del balcone aggettante, che quand’anche serva da copertura per l’inquilino del piano inferiore, non ha una funzione indispensabile per quest’ultimo.

In pratica

Per i balconi aggettanti le spese di manutenzione sono a carico di tutti i condomini solo se riguardano elementi utili a tutto l’edificio (perché decorano la facciata o sono importanti per la struttura del palazzo). Altrimenti sono a carico del proprietario della singola unità immobiliare.

Per i balconi incassati di regola le spese sono a carico di tutti, a meno che non si tratti di un intervento interno al singolo appartamento (si pensi alla pavimentazione): in questo caso paga solo il proprietario.

La sentenza

Cassazione, sezione II civile, sentenza 30.04.2012, n. 6624

I balconi aggettanti, costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

Cassazione, sezione II civile, sentenza 19.01.2000, n. 568

Gli elementi decorativi del balcone di un edificio in condominio (nella specie, cementi decorativi relativi ai frontali ed ai parapetti) svolgendo una funzione di tipo estetico rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, costituiscono, come tali, parti comuni ai sensi dell’art. 1117, n. 3, con la conseguenza che la spesa per la relativa riparazione ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.

[1] Art. 1123 cod. civ.

[2] Art. 1117 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 11156/2015 del 29.05.2015; Cass. sent. n. 10209/2015 del 19.05.2015; Cass. sent. n. 6624/2012 del 30.04.2012; Cass. sent. n. 568/2000 del 19.01.2000.

[4] Cass. sent. n. 14576/2004 del 30.07.2004.

[5] Art. 1125 cod. civ.

Termovalvole in condominio: la scadenza è al 30 giugno

Termovalvole in condominio: la scadenza è al 30 giugno

Milleproroghe: slitta al 30 giugno il termine entro cui il condominio dovrà far installare i termoregolatori di calore.

Come anticipato dalle fonti ufficiose nelle scorse settimane, il Consiglio dei ministri ha appena approvato, nel Decreto Milleproroghe di fine anno, lo slittamento del termine per adeguare i condomini, con riscaldamento centralizzato, all’obbligo di installazione delle termovalvole, termine che doveva altrimenti scadere il 31 dicembre ed alla cui violazione sono collegate sanzioni da 500 e 2.500 euro per ciascun appartamento.

Viene quindi prorogata di 6 mesi la scadenza per installare sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore, previa verifica che questa installazione determini efficienza di costi e risparmio energetico. Solo la presenza di una relazione di un perito nominato dal condominio, che attesti l’impossibilità della modifica o l’inutilità della stessa, può esentare condominio e condomini dal nuovo obbligo (leggi Quando le termovalvole non sono obbligatorie).

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Il decreto attuativo della direttiva europea era stato approvato a fine luglio, ma molti sono i condomini che non sono riusciti ad adeguarsi per via della difficoltà di riunire i condomini, incaricare la ditta ed effettuare i lavori.

Incertezza sui controlli affidati all’Arpa che però non ha il personale sufficiente per eseguire tali verifiche.

Soddisfazione da parte di Confedilizia che pochi giorni fa aveva lanciato un appello e scritto al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per segnalare che «in molti edifici non è stato possibile adempiere a quanto imposto dalla legge a causa del ritardo con cui è stato approvato il decreto che ha modificato le regole applicabili e dell’impossibilità materiale, per le imprese, di soddisfare le innumerevoli richieste».

Era stata proprio Confedilizia a chiedere lo scorso 23 dicembre la proroga del termine entro cui «i condominii devono installare sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore, previa verifica che tale installazione determini efficienza di costi e risparmio energetico».

Pergolato, tenda, tettoia e pensilina: permessi e autorizzazioni

Pergolato, tenda, tettoia e pensilina: permessi e autorizzazioni

Per tutte le strutture fisse, ancorate stabilmente al suolo, c’è sempre bisogno del permesso di costruire del Comune, ma il permesso non può essere subordinato al consenso dell’assemblea di condominio.

Il modo migliore per sfruttare una parte del giardino o del terrazzo è di creare uno spazio coperto da un pergolato, una tenda, una tettoia o una pensilina. Spesso però tali opere posso comportare, per il proprietario, problemi seri da un punto di vista legale: il rischio di compiere un reato di abuso edilizio è sempre dietro l’angolo per chi non chiede le dovute autorizzazioni amministrative al Comune. E quand’anche ci si mette in regola con la licenza edilizia, capita che la guerra provenga dal proprio condominio dove qualcuno potrebbe contestare la costruzione ritenendola antiestetica, pericolosa o lesiva della propria privacy. Insomma, quando si decide di installare un pergolato, una tenda, una tettoia o una pensilina è sempre meglio chiedere un parere, oltre che all’ingegnere o all’architetto, anche all’avvocato. Ma procediamo con ordine.

Quando è necessario il permesso di costruire?

La cosiddetta licenza edilizia – quale è appunto il permesso di costruire rilasciato dal Comune ove è situata la casa oggetto dell’intervento – è, in generale, richiesta tutte le volte in cui viene creata «volumetria», a prescindere dalla vivibilità o meno dello spazio. Viceversa, quando il manufatto è amovibile (ossia può essere smantellato con facilità) e di modeste dimensioni, nonché quando è destinato a finalità transitorie, è sufficiente la Cil, ossia la comunicazione di inizio lavori.

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In ogni caso è sempre bene verificare prima cosa dice il Regolamento edilizio del proprio Comune perché le regole potrebbero differire da zona a zona.

Tende da sole

Una tenda da sole è composta da una struttura metallica, ancorata alla parete e/o al soffitto, che sorregge un telo di copertura per la protezione dell’ambiente sottostante da sole o agenti atmosferici.

Esistono poi le pergotende, ossia la tenda-pergolato. Si tratta di una struttura leggera e amovibile, caratterizzata da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio, senza bisogno di opere di demolizione.

Le tende da sole generalmente rientrano nelle opere di edilizia libera e, per esse, è necessaria una semplice comunicazione di inizio lavori (Cil o Cila). Tuttavia, a volte la questione non è così scontata come può sembrare: esistono infatti tende appoggiate a supporti di alluminio e a lastre di vetro laterali, a chiusura dello spazio, che richiedono il permesso di costruire perché ritenute «nuove costruzioni». Dunque la distinzione va tracciata caso per caso.

Il Consiglio di Stato, per cercare di chiarire la questione, ha operato una distinzione tra due tipi di tende con pergolato (cosiddetta pergotenda):

  • pergotenda con semplice supporto in alluminio non chiuso. Si tratta di una struttura in alluminio destinata ad ospitare tende retrattili di plastica; in tale caso i due pilastri in alluminio – su cui si poggia la tenda retrattile in plastica una volta aperta completamente – servono solo come appoggio per la tenda stessa. Trattandosi di una «opera precaria», si rientra nella cosiddetta edilizia libera e non è richiesto il permesso di costruire. In particolare, per potersi parlare di «opera precaria» non bisogna tenere conto solo dei materiali utilizzati (che devono essere leggeri quando a spessore e resistenza) e di come essa è ancorata al suolo (collegamento che deve essere non stabile, ma delle esigenze che essa mira a soddisfare: esigenze che devono essere temporanee. Ebbene, nel caso di una tenda retrattile, l’elemento centrale della costruzione è la tenda stessa e non le strutture in alluminio (indispensabili solo al suo sostegno e quindi accessorie); e siccome la tenda non è né fissa, né stabile, né permanente (proprio perché retrattile e quindi facilmente chiudibile) la sua installazione non necessita di permesso a costruire in quanto non crea una superficie stabile ossia uno spazio chiuso;
  • pergotenda con la presenza di lastre di vetro laterali di chiusura: si tratta di una struttura in alluminio destinata ad ospitare tende retrattili di plastica, ma con la presenza, questa volta, di lastre di vetro laterali come elementi di chiusura. In questo caso le due strutture in alluminio su cui si poggia la tenda non servono solo alla tenda stessa, ma anche ad appoggiare le lastre laterali, che a loro volta creano uno spazio chiuso. Pertanto è necessario il permesso di costruire. Ciò vale anche se le lastre di vetro sono installate “a soffietto” o “a pacchetto” e quindi possono essere aperte.

Tettoia

Per la realizzazione di una tettoia di non piccole dimensioni è necessario il permesso di costruire in quanto questa determina un ampliamento dell’edificio.

Infatti, a differenza del pergolato, che costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato solo a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata come riparo e perciò aumenta l’abitabilità dell’immobile.

Le tettoie richiedono sempre il permesso di costruire e devono rispettare la distanza minima di 3 metri dalla costruzione vicina.

In particolare, se la tettoia è fissa e ancorata al muro in modo stabile, finalizzata a soddisfare un bisogno non momentaneo ma duraturo, il proprietario deve chiedere l’autorizzazione del Comune. Diversamente commette il reato di abuso edilizio ed è tenuto alla demolizione dell’opera. Demolizione che può essere richiesta in qualsiasi momento, anche dopo molti anni poiché si tratta di un ordine che non va mai in prescrizione.

Il Comune non può subordinare il rilascio della licenza all’autorizzazione del condominio perché si tratta di normative di tipo diverso, con regole e presupposti differenti: la prima di carattere pubblicistico, la seconda privatistico. A riguardo di quest’ultimo punto, il proprietario deve evitare che la tettoia:

  • pregiudichi il decoro architettonico dell’edificio;
  • pregiudichi la stabilità dell’edificio;
  • violi le norme sulle distanze minime anche in senso verticale, ossia rispetto al piano superiore, limitando a quest’ultimo lo spazio e l’aria.

Peraltro, se il regolamento di condominio non prescrive diversamente, il proprietario della costruzione non deve prima sottoporre la questione all’approvazione dell’assemblea di condominio e chiedere il consenso di questa, ma deve solo dare notizia dell’inizio dei lavori all’amministratore che, a sua volta, dovrà riferirlo agli altri condomini. Sarà poi onere di questi, se ritengono che il manufatto pregiudichi il decoro architettonico dell’edificio o la stabilità, chiederne la demolizione.

Viceversa, la tettoia di piccolissime dimensioni – quella, ad esempio, a scopo decorativo o necessaria a ripararsi dalla pioggia quando si apre la porta di casa – non necessita di permesso di costruire. Si deve trattare di strutture ancorate a parti preesistenti di edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, di ridotta dimensione.

Pensiline

La pensilina è una struttura in aggetto ancorata alla facciata dell’edificio e serve a proteggere le finestre o le porte-finestre dagli agenti atmosferici. Per definizione la pensilina non può poggiare su pilastri (altrimenti sarebbe una tettoia). Comportando una variazione della facciata dell’edificio ed essendo stabile richiede l’autorizzazione del Comune. Ma su questo punto alcuni Comuni si sono orientati in modo diverso, a seconda dell’esenzione della pensilina oltre il prospetto dell’edificio.